Mentre il mondo occidentale è sempre più alle prese con le conseguenze della crisi sistemica dei mercati, in Africa prosegue il cinico carosello delle carestie. Mentre lo scorso anno l’emergenza riguardava il Corno d’Africa, in queste settimane sta prepotentemente venendo alla ribalta la crisi che attanaglia la regione saheliana, dove il raccolto ha segnato un calo della produzione cerealicola dal 15 al 52% rispetto alla stagione precedente, con una media per l’Africa occidentale stimata attorno al 25%. Come al solito, la Fao ha lanciato l’ennesimo appello, diramato lo scorso 15 marzo, per la raccolta di fondi addizionali con l’intento di scongiurare una crisi alimentare che a breve potrebbe colpire in maniera devastante, soprattutto la fascia saheliana dell’Africa occidentale. L’obiettivo minimo sarebbe quello di racimolare almeno 70 milioni di euro, con i quali assistere 790mila famiglie di agricoltori e allevatori, peraltro tutta gente ripetutamente colpita dalla carestia negli ultimi anni. Secondo gli esperti della Fao, sarebbero almeno 15 milioni le persone a rischio nel Sahel, così distribuiti: 5,4 milioni di persone (35% della popolazione) in Niger, tre milioni (20%) nel Mali, 1,7 (10%) in Burkina Faso (10%), 3,6 milioni nel Ciad (28%), 850mila in Senegal (6%), 713mila in Gambia (37%) e 700mila in Mauritania (22%). È chiaro comunque che servono molti più soldi, non foss’altro perché con l’andare del tempo, man mano che la crisi aumenterà. Secondo l’Onu servirebbero almeno 724 milioni di dollari per affrontare i bisogni attuali. A parte l’irregolarità delle piogge, la crisi è stata scatenata anche dai prezzi alimentari elevati a seguito della crescente speculazione sulle materie prime alimentari, per non parlare dell’accesa conflittualità che attanaglia la regione. Per intenderci stiamo parlando del Mali settentrionale dove è in atto un’offensiva, lanciata il 17 gennaio scorso, dai ribelli del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (Mnla) nella città di Menaka e nella regione di Kidal. Da allora le ostilità tra gli insorti e l’esercito regolare del Mali si sono intensificate al punto che – secondo quanto documentato dall’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu – 195mila persone sono state costrette ad abbandonare il territorio cercando rifugio nei Paesi limitrofi. Si preannuncia, dunque, a livello regionale, una stagione della fame che di fatto sta già mettendo in ginocchio la stremata popolazione civile. Basti pensare che da quelle parti i prezzi sono lievitati mediamente dal 25 al 50% nel corso degli ultimi 5 anni e che potrebbero crescere ulteriormente di un altro 25-30% nel periodo in cui la crisi alimentare toccherà il suo apice nei mesi di luglio e agosto, esponendo alla miseria, in modo inesorabile, le famiglie vulnerabili alla malnutrizione. A pagare il prezzo più alto, come accaduto lo scorso anno nel Corno d’Africa, sono i bambini. Si ritiene infatti che a seguito dell’emergenza saheliana, nei prossimi sei mesi, più di un milione di bambini dovranno essere inseriti in centri nutrizionali perché colpiti da inedia acuta e grave. In condizioni peggiori, il numero potrebbe arrivare ad un milione e mezzo.
Lungi da ogni valutazione ideologica, vengono alla mente di chi scrive le parole che, nel lontano 1944 Jean-Paul Harroy, governatore belga in terra ruandese, scriveva ai tempi del colonialismo: “Africa, terra che muore”. E alla fine degli anni Settanta René Dumont, agronomo di fama mondiale, rincarava la dose stigmatizzando il cronico dramma dei Paesi del Sahel, la cui ciclica carestia provocava già allora “dei sussulti d’interesse, fortemente equivoci”. E sì perché quarant’anni anni fa si versavano come oggi fiumi d’inchiostro per denunciare le solite emergenze alimentari che, com’è noto, fanno disastri a dismisura. D’altronde, le condizioni naturali, soprattutto climatiche, hanno sempre creato problemi a quelle latitudini anche se il fenomeno, con la fine del colonialismo, si è notevolmente acuito. Sempre Dumont, in un celebre libro pubblicato nel 1980 dal titolo più che emblematico, “L’Afrique étranglée” (“L’Africa strangolata”) scriveva che: “Mentre il Sahara avanza dappertutto, al nord e al sud, i Paesi ricchi continuano ad importare l’arachide e il cotone grezzo, le cui coltivazioni rovinano i terreni, ed ad esportare prodotti industriali, macchine e surplus di cereali. E affluiscono con tutte le spese relative, tutti gli esperti, commissioni, agenzie internazionali, con le valigie colme di talismani, gadgets… e altro fumo negli occhi”. Dumont ce l’aveva in particolare sia con le burocrazie della fame che “vivono alle spalle del Terzo Mondo e per esse la fine del sottosviluppo significherebbe disoccupazione”, sia con le borghesie africane che “hanno preso gusto al potere e vi si aggrappano preoccupate solamente di garantire la loro permanenza…”. Purtroppo, nonostante l’umanità abbia varcato la soglia del terzo millennio, il copione è sempre più o meno lo stesso. Ma a pensarci bene, il problema va ben al di là dell’emergenza e chiama in causa una visione alquanto paternalistica degli aiuti umanitari per cui s’interviene sempre quando è ormai troppo tardi. Inoltre, occorre riconoscere che le emergenze di cui sopra sono direttamente proporzionali al prosciugamento delle casse preposte al finanziamento dei progetti che dovrebbero quanto meno alleviare se non addirittura prevenire simili sciagure. Proviamo, allora a tornare indietro nel tempo cercando di comprendere come potevano nel passato sopravvivere le popolazioni del Sahel, visto che, stando agli esperti le siccità affondano le radici in tempi immemorabili. “Lo si sapeva – scrive Dumont – quindi lo si prevedeva e, nelle buone annate, si riempivano i granai di piccolo miglio e più a sud, in terre argillose, di grosso miglio, il sorgo”. Ecco perché, suggeriva l’agronomo francese, “occorre ricominciare come nei tempi antichi, prima della colonizzazione, a formare delle scorte alimentari oppure dei granai collettivi, al posto delle cooperative imposte e controllate dalle autorità, e da cui traggono vantaggio soprattutto i loro dirigenti…”.
Insomma, Dumont suggeriva saggiamente di ricreare raggruppamenti economici, sociali e politici, diretti dalle classi rurali, capaci di opporsi in modo non violento all’ingordigia delle oligarchie locali. D’altronde, non è un caso se nella crisi che attanaglia il Mali settentrionale, oltre alle tragiche vicende che riguardano il popolo Tuareg, vi è un mix d’interessi legati allo sfruttamento del petrolio e dell’uranio. In sostanza, fin quando parleremo di emergenze, anziché delle premesse allo sviluppo saremo sempre alle prese con queste cicliche mattanze. Secondo il sociologo ivoriano Assouman Yao Honoré all’origine di questi fenomeni devastanti che affliggono l’Africa, come la fame o la siccità, miseria e sottosviluppo, risiedono fattori reversibili, legati in gran parte alle responsabilità e dunque all’azione di specifici soggetti umani. Si tratta pertanto d’invertire la rotta, sostiene Assouman, mobilitando risorse intellettuali e materiali, nella consapevolezza che abbiamo un destino comune. In effetti, gli aiuti d’emergenza dovrebbero rimanere una soluzione temporanea, all’unico scopo di consentire ad una popolazione di sopravvivere ad una determinata situazione di crisi, mentre invece quasi sempre si traducono in una sorta d’espediente per rinviare la soluzione strutturale del problema. Se da una parte occorre vigilare sulle deviazioni quali ad esempio l’arrivo spesso tardivo o non confacente degli aiuti ai bisogni, la loro distribuzione mal organizzata o distorta dall’intervento di fattori politici, etnici o dal clientelismo, i furti e la corruzione, che impediscono alle derrate di giungere ai più indigenti; dall’altra s’impone un salto di qualità nelle forme d’intervento. Come? Investendo, per esempio, risorse nella prevenzione di queste calamità. Gli aiuti, a pensarci bene, dovrebbero, in primo luogo, contribuire a liberare le popolazioni dalla loro dipendenza. A tal fine, non possono prescindere da progetti che mirino a premunire le popolazioni esposte a possibili future penurie alimentari. Solo così gli aiuti di emergenza – potenziando la concertazione tra i vari partner della catena: Stati, autorità locali, organismi non governativi e associazioni ecclesiali – potranno considerarsi alla stregua di una incisiva azione di solidarietà internazionale. Non v’è dubbio che il problema della fame non potrà risolversi se non promuovendo le politiche di sicurezza alimentare, nella consapevolezza che troppo spesso la massiva distribuzione di generi alimentari in un determinato luogo, se non adeguatamente coordinata e non funzionale alle necessità contingenti, si rivela controproducente per combattere efficacemente la sciagura della malnutrizione. Da qui l’urgenza di una strategia capace di favorire una saggia e lungimirante erogazione di aiuti a beneficio dei tanti miserabili minacciati dallo scandalo della fame. Per debellare definitivamente la fame e non rinviarne la soluzione.
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