Disabilità
Caregiver dei figli: tocca alle donne, pochi i riconoscimenti
Un figlio con disabilità grave viene accudito dalla madre, un lavoro estenuante, di isolamento e solitudine, poco riconosciuto dalla stessa famiglia. Ce ne parla Gabriella Rossi, psicologa clinica presidentessa della sezione di Monza dell'Unione italiana distrofia muscolare
Quando la persona da accudire è il proprio figlio, come nel caso delle gravi malattie neuromuscolari, il caregiver è quasi sempre la mamma; è lei la persona di riferimento, su cui ricade la maggior parte del peso mentale e fisico della gestione. «Un figlio con disabilità grave viene accudito dalla madre che, per farlo, rinuncia alla propria vita personale e lavorativa. A poco a poco, sopraffatta dalle attività di cura, che spesso sono di natura anche sanitaria, si allentano i legami sociali e amicali e il conforto che poteva derivarne» spiega Gabriella Rossi, psicologa clinica e presidentessa della sezione dell’Unione italiana distrofia muscolare Uildm di Monza, dove lavora in particolare con le mamme che si prendono cura dei figli disabili. «L’isolamento e la solitudine, come la mancanza di sostengo psicologico e sociale, pesano molto. Uildm ha attivato da oltre 15 anni un supporto psicologico a chi si prende cura di persone con malattie neuromuscolari».
«Oltre alla frustrazione di non avere quel bambino che si era immaginato, le mamme, che spesso sono portatrici della mutazione genetica all’origine della malattia del figlio, proprio per esserne state veicolo convivono con un forte senso di colpa che si aggiunge a quello, vissuto da ogni caregiver, che si presenta puntuale al solo pensiero di dedicarsi a un proprio bisogno o desiderio» spiega la psicologa. Queste dinamiche le conosce bene, dopo decenni di attività come volontaria nella sezione Uildm che oggi presiede. Per questo, alle mamme, lei cerca sempre di spiegare l’importanza di mantenere la propria attività professionale, come fonte di gratificazione, ma la sovrapposizione del tempo di lavoro e quello di cura spesso le porta a doversi dedicare interamente all’attività di assistenza (in che misura questa sia una decisione libera e quanto, invece, una scelta obbligata dettata da condizioni dovute a precise scelte politiche, ne abbiamo parlato qui).
Più ancora del doversi confrontare ogni giorno con la sofferenza e la malattia che non è destinata a guarire, situazione già piuttosto pesante, a pesare è il mancato riconoscimento del proprio impegno e della propria dedizione, che sono invisibili spesso agli occhi degli stessi familiari. «È chiaro che parlare di caregiver significa parlare della questione di genere» ribadisce Rossi. Sulle donne pesano aspettative sociali e forti pressioni difficili da ignorare. «La questione di genere acuisce isolamento e invisibilità. Come associazione abbiamo avviato una riflessione sul riconoscimento di questo impegno fisico ed emotivo totale». È questo un tema molto sentito, le donne caregiver sono spesso esauste e prive di una prospettiva di futuro: «In questo contesto di confronto e riflessione all’interno dell’associazione» ci racconta Rossi, «una mamma molto in gamba, un’assistente sociale, quindi molto sensibile a tutti questi temi, e la cui figlia disabile è altrettanto attiva, rientrata da un periodo Erasmus, ha alzato la mano e ha chiesto: E il diritto a un progetto di vita per il caregiver dov’è?».
A volte, poi, il caregiver è l’unico contatto con il mondo esterno e ciò aumenta la responsabilità percepita. Questo favorisce, anche, la comparsa di un forte attaccamento. Infatti, essere il tramite attraverso il quale la persona con disabilità può avere esperienza del mondo può, da un lato, portare il caregiver ad adottare atteggiamenti talmente protettivi da rendere problematica la strada verso l’autonomia del proprio figlio, in particolare nel periodo dell’adolescenza. «Questo pone la questione di un altro bisogno, quello dell’accompagnamento alla genitorialità. L’adolescenza è il momento più critico, per via delle naturali spinte all’indipendenza del giovane in crescita e perché se prendersi cura in tutto e per tutto di un figlio piccolo è naturale, lo è di meno quando esso cresce» spiega la psicologa che puntualizza: «Tutta questa necessità percepita di proteggere il figlio è anche dovuta alla società e alla sua cultura non accogliente della diversità».
Tale forte legame con una persona non autosufficiente è anche tale da causare grosse crisi di identità e difficoltà psicologiche nel momento in cui dovesse venire a mancare. «Dal trauma, ci sono delle mamme che hanno bisogno di mesi per essere di nuovo capaci di fare le cose che avevano sempre fatto» racconta Rossi che invita a prendersi cura di sé e a chiedere l’aiuto psicologico necessario perché «è più difficile chiedere aiuto che ottenerlo».
Foto da Pixabay
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