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«Care Divany e Madina, scusateci»

Avevano 3 e 6 anni, sono morte rispettivamente il 6 e il 21 novembre nel mar Mediterraneo e sulla ferrovia alla frontiera tra Croazia e Serbia. La mamma di Divany la ricorda a Scicli con una corona di fiori, i genitori di Madina non si danno pace. Attorno a loro volontari e operatori che condividono il dolore e denunciano la disumanità delle frontiere chiuse: ecco la lettera-monito di Silvia Maraone di Ipsia che era con la bimba afgana pochi giorni prima della tragedia

di Daniele Biella

Divany aveva 3 anni, Madina 6. Divany, originaria del Camerun, è morta annegata nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017. Madina, afgana, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre. Nelle foto che conservano i loro cari sono sorridenti, perché così dovrebbero essere tutti i bambini del mondo.


Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Medina qualche minuto prima della tragedia) con quella “cecità” così ben descritta dallo scrittore Saramago che non riconosce o addirittura ripudia il bisogno dell’altro nonostante quello stesso “altro” un giorno, potremmo essere noi stessi.

Merline, la madre di Divany, è stata tratta in salvo in mare da Gennaro Giudetti, volontario della nave dell’ong Sea-Watch che quel 6 novembre ha issato a bordo 58 persone salvando loro la vita e che ora sta cercando (anche con questo appello su change.org supportato da migliaia di firmatari) di incontrare il ministro Minniti e il Parlamento europeo per raccontare il comportamento scorretto della Guardia costiera libica visto con i proprio occhi. Domenica 10 dicembre, grazie alla comunità in cui è accolta, la Casa delle culture della Fcei (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia) a Scicli, in Sicilia, ha chiesto e ottenuto di lanciare in mare una corona di fiori in ricordo di sua figlia. C’è stata una breve cerimonia (a questo link la narrazione del momento) e alla fine è stato cantata la canzone We shall overcome. “Chiedo scusa alle bimbe anche se non ci sono più, ai loro genitori. Siamo corresponsabili di queste morti”, rimarca Giudetti.

A Madina, oltre alla propria famiglia che non smette di piangerla per l’assurdità della sua fine e il trattamento disumano della polizia di frontiera croata che li ha respinti con il buio rifiutando la loro richiesta di un alloggio temporaneo per la notte prima di far ritorno in Serbia, era legata anche Silvia Maraone, storica volontaria e poi cooperante dell’ong Ipsia delle Acli. La conosceva bene, perché Maraone da mesi opera nel campo profughi di Bogovadja, in Serbia, dove Medina e i suoi sono stati per parecchio tempo. Alla notizia della morte, rimasta per un’intera settimana in sordina prima che Al Jazeera e altre testate internazionali la riprendessero, la cooperante Ipsia ha riversato sul suo blog "Nella terra dei cevapi" l’angoscia per l’accaduto scrivendo una lettera piena di lucida emozione e denuncia per quanto sta accadendo. Eccola qua sotto, in ampie parti.

[…]La Croazia invece da quest’estate sembrava più porosa, sembrava quasi si riuscisse a passare e poi se proprio non si riusciva ad andare più in là, verso Austria o Ungheria, si poteva chiedere l’asilo. Non sarà Schengen, ma è pur sempre UE.

Da novembre, osserviamo impotenti i tentativi che le persone fanno di andare di là, a Nord dalle parti di Šid. Dal nostro campo decine di persone sono partite e le abbiamo viste ritornare.

Una di queste famiglie non è tornata intera. Avevano lasciato il nostro campo ad agosto e passato un paio di mesi tra Tutin e Belgrado, fino a quando non hanno provato ad attraversare il confine.

Di Madina ricordo che aveva gli occhi grandi, i capelli neri e folti, uno sguardo vispo e un sorriso furbo. Era piccolina e si confondeva in mezzo ai suoi fratelli e sorelle. Una mattina di maggio, ero da poco arrivata in Serbia, arrivo al campo e sento i bambini che urlano e corrono verso di me: “cats, cats”! Madina mi prende per mano e mi porta a un grande vaso in cemento, dentro il quale ci sono due gattini neri di meno di un mese, terrorizzati. I bambini sono eccitati e contenti, giocano coi gatti, senza pensare a quanto siano spaventati. Prendo i gatti, li metto in una scatola e li porto in auto. I gatti, avranno molta più fortuna dei profughi bloccati da anni nel limbo migratorio, loro sono a Milano e vivono pasciuti e felici in una bella famiglia, con documento di identità e regolarmente registrati in Comune.

Madina era così, curiosa, sorridente, chiacchierona. Anche se non parlava così bene inglese riusciva a farsi capire e ti saltellava intorno.

Mi immagino come sia stato faticoso per lei, con le sue gambette corte, attraversare la “jungle” tra la Serbia e la Croazia, di notte, tra i fili spinati e le pattuglie della polizia, senza probabilmente capire cosa stava succedendo. Così come non avrà capito cosa è successo, quanto un treno l’ha travolta, uccidendola e lasciando il suo corpo insanguinato al buio, vicino ai binari, mentre gli altri della sua famiglia cercavano di capire al buio dove fosse finita la piccola. L’ha trovata Rashid, suo fratello. Un ragazzo alto e gentile, taciturno, sempre disponibile e attento ai piccoli della famiglia. Mi immagino le urla di Nilab, la sorella maggiore con cui giocavo a pallavolo e con cui parlavamo dei sogni di arrivare in Europa e poter vivere liberamente, in Germania.

La versione ufficiale della polizia croata è che abbiano assistito con i visori infrarossi ai movimenti di un gruppo di persone lungo la ferrovia, dal lato serbo del confine e di come sia passato il treno, a seguito di questo parte del gruppo è andata di corsa verso le pattuglie portando in braccio il corpo di una bambina. La polizia afferma che stavano compiendo i loro compiti routinari di difesa delle frontiere, così come previsto dalle leggi dell’UE, applicando i respingimenti forzati.

La versione della famiglia, supportata da organizzazioni umanitarie (tra cui MSF) e gruppi di attivisti e volontari è che la famiglia avesse invece già raggiunto la Croazia e che sia stata respinta verso la Serbia, ricevendo come indicazioni di seguire la ferrovia, senza essere avvisati del potenziale pericolo del passaggio dei treni anche di notte e rifiutando la richiesta della madre stremata che chiedeva solo di poter riposare un po’ con i figli, stanchi, affamati e infreddoliti. Oltre a questo, in nessun modo la famiglia ha avuto alcun aiuto da parte dei croati, né tanto meno dei serbi, che per alcuni giorni non hanno nemmeno dato il corpo alla famiglia e hanno loro imposto un funerale senza rispettare le usanze musulmane. E’ così che la piccola Madina ora si trova sepolta a pochi chilometri dal luogo in cui è stata uccisa, lontana dalla sua casa, dalla sua famiglia. Era la notte tra il 20 e il 21 novembre.

E noi, cosa possiamo fare? Come si può restare indifferenti alla morte di Madina e delle migliaia di innocenti che cercano solamente un futuro migliore, mettendo in gioco tutto ciò che hanno, cioè la loro vita?

Io li vedo questi confini insanguinati e queste vite miserabili. Ero in Croazia il giorno dopo che Madina è morta, lungo la strada che passa dietro il confine. Ho visto le pattuglie, i cani, la caccia all’uomo. Ho visto la polizia croata. E ho visto la polizia ungherese e la caccia all’uomo da quella parte del confine. Ho visto il filo spinato, ho respirato la paura, il buio e il freddo. Ho visto i fuocherelli accesi nella notte da chi parte per il game, le immondizie abbandonate dietro di sé, le scarpe spaiate, le coperte grigie dell’UNHCR. Ho sentito i racconti di bambini di sei-sette anni, di come dopo aver camminato per tanti chilometri non riuscivano più a fare un passo e si addormentavano ogni volta che si dovevano abbassare per sfuggire alle vedette. Mi hanno parlato del freddo, della sete, della fame. Della paura.

E no, bambini, non è questo il game. Non è giusto che il gioco sia questo. Io ho avuto fortuna, sono stata una bambina amata e cresciuta in una grande città, dove andavo a scuola, giocavo coi compagni, ho fatto gli scout, sport e volontariato. Dopo la Slovenia, sono stata in Bosnia e in Kosovo e ora qua in Serbia, e provo a portare sorrisi e giocare, a dimenticare, a ricordare che siete solo bambini e che avete diritto alla felicità e alla spensieratezza, ad andare a scuola, avere vestiti caldi e puliti, pupazzi e giocattoli, dei nonni che vi coccolino e vi vizino, dei genitori che si preoccupino per voi.

E no, non posso dimenticare Madina, non posso dimenticare il suo entusiasmo per i gattini, il modo in cui ballava “tutte le scimmiette in fila per sette”. Non posso dimenticare lei, la sua famiglia e tutte le persone incontrate in questi anni di Balkan route , accampate a Idomeni, a Hotel Hara, a Eko station, al campo profughi di Sounio, a Helliniko, a Horgos e Kelebija, nelle barracks di Belgrado, nell’Afghan park e il modo in cui nonostante tutto, i bambini riescano a giocare. Non posso.

E se vi chiedete come si fa, non lo so nemmeno io come si fa, so solo che quando vedo mia nipote Anna che ha 4 anni e dei ricci bellissimi e le ho appena regalato un pigiama con Elsa di Frozen, penso solo che lei è fortunata e le auguro che la vita non le dia mai quello che sta dando a queste migliaia di Madina in giro per il mondo alla ricerca di fortuna.

Tra poco è Natale, spenderemo un sacco di soldi per cibo, regali, luminarie e decorazioni.
Qualcosa lo potete fare anche voi. Ricordatevi di Madina e di quelli che stanno ancora facendo il game.

Potete fare un regalo ai bambini di Bogovadja . Non sono giocattoli, non sono dolci e caramelle, sono scarpe e vestiti per l’inverno, dignitosi e caldi, che forse gli serviranno quando dovranno attraversare i boschi al confine.

Ciao, Madina.

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