Fundraising

Care associazioni, meglio l’ambassador dell’influencer

Così Elena Zanella, esperta di raccolte fondi per il Terzo settore, interviene sul pandoro-gate che ha coinvolto Chiara Ferragni

di Alessio Nisi

Da “fundraiser, da professionista del dono” è dispiaciuta e preoccupata. Lo scivolone sul pandoro che ha coinvolto Chiara Ferragni non sembra un caso isolato e corre il rischio di gettare «un’ombra» sulla credibilità di chi raccoglie fondi per il Terzo settore, che da questa storia, «ne esce con le ossa rotte». Con il possibile effetto di «allontanare i donatori», soprattutto quelli «dubbiosi». Di etica, di trasparenza, comunicazione e del rapporto tra testimonial e non profit, e di corporate fundraising, abbiamo parlato con Elena Zanella, fundraiser, esperta di raccolta fondi, soprattutto nel Terzo settore, vincitrice dell’Italian Fundraising Award, autrice, tra gli altri, del libro di recente pubblicazione Startup Fundraising – Guida di riferimento alla raccolta fondi per piccole e medie organizzazioni del Terzo settore. «Non tutte le persone donano, una parte dona e continuerà a farlo, se c’è fiducia. Poi ci sono alcuni che avrebbero piacere a donare, ma quando succedono queste cose si tirano indietro». Non solo. Zanella volge lo sguardo anche alle conseguenze che vicende di questo tipo hanno sulle aziende. «Può succedere che», spiega, «le iniziative dopo fatti di questo tipo vengano viste con sospetto dal consumatore. Ecco perché bisogna essere trasparenti. Il rapporto con le aziende è una continua costruzione di una fiducia reciproca, che diventa testimonianza delle persone che decidono di sostenerti».

Zanella, che ne pensa della vicenda del pandoro pink che ha coinvolto Chiara Ferragni?

«Queste cose non dovrebbero accadere. Ferragni è una professionista, lei ha parlato di un errore di comunicazione. La comunicazione è il suo mestiere: un errore così ha un impatto enorme sulla reputazione. Si può sbagliare e su questo sono d’accordo con la Ferragni. Penso che la comunicazione di crisi l’abbia gestita “da manuale”, assumendosi responsabilità e portando soluzioni, ma innesca anche perplessità in chi guarda e ascolta. Probabilmente, se l’errore c’era, poteva essere riparato prima e probabilmente tutto questo non sarebbe accaduto o avrebbe avuto impatti ben diversi.

Questa storia chi colpisce di più?

Rispetto al fundraising questa vicenda influisce anche sulla credibilità del Terzo settore. Noi dobbiamo avere un ruolo di garanti e di vigilare. Probabilmente se ci fosse stato un professionista del fundraising magari le cose potevano andare diversamente.

Che lezione portiamo a casa?

Rispetto al fundraising noi dovremmo lavorare ancora di più sulla comunicazione, sulla trasparenza, sulla relazione con le persone e sull’essere sempre più disponibili a raccontare le cose e narrare bene quello che facciamo. E già dovremmo farlo di default. E poi non dobbiamo dimenticare mai che i soldi che ci vengono dati non sono i nostri, ma una disponibilità che il donatore ci fa perché si pongano in essere quelle cose che abbiamo annunciato.

Elena Zanella

Lei parlava anche della necessità di vigilare.

Vigilare e non accontentarsi. Vuol dire dare più valore al nostro brand. Non va bene qualsiasi cosa. Non è accettabile che qualsiasi cosa possa andare bene.

Lei ha scritto che fare fundraising o, meglio, essere un fundraiser coincide con un approccio alla sostenibilità e al sociale che deve prevedere necessariamente uno stile e un modo d’essere che gli sono propri.

Occuparsi di marketing sociale è una scelta e una responsabilità. La capacità di valorizzare qualcosa che non ha di fatto un valore facilmente quantificabile ti mette nella condizione di avere una grandissima responsabilità nei confronti di chi si fida di te e dei beneficiari che poi ottengono i risultati grazie al lavoro che stai facendo. Noi in prima battuta abbiamo la responsabilità nei confronti del donatore e del lavoro che comunque cerchiamo di portare a casa nella sostenibilità delle nostre organizzazioni».

Intervista a Elena Zanella, durante il Salone della Csr di ottobre 2023

Influencer e non profit. Che ne pensa?

Dipende dai comportamenti delle singole persone, non ritengo che tutti siano fatti nello stesso modo e abbiano degli obiettivi secondi. Certo, l’attrattività che i social media hanno creato è assolutamente innegabile e di questo purtroppo dobbiamo tenere conto. Come consumatori poi dobbiamo lavorare sul nostro spirito critico.

Ma il non profit ha bisogno dell’influencer?

Alle organizzazioni che seguo lo consiglio dopo un percorso di maturità interna (prima bisogna lavorare la costruzione dell’identità). Non possiamo riflettere solo sull’output, ovvero quello che ci porta nel momento, perché poi questa cosa la paghiamo. Occorre costruire un percorso di stima reciproca. Non basta la grande firma, perché poi succede che la grande firma abbia dei problemi e questa cosa si rifletta enormemente su di noi. Meglio avere un ambassador, che in qualche modo sposi i valori e aderisca in modo incondizionato alla causa dell’organizzazione stessa.

In aperura foto di Foto Spada/LaPresse . Nel testo immagine per gentile concessione di Elena Zanella

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