Diritti
Carceri, Dacia Maraini: «Il sovraffollamento è una forma di tortura»
«Il carcere dovrebbe essere un posto dove si paga una colpa ma con dignità e, come dice la Costituzione, con la possibilità di studiare, lavorare, giocare, dormire senza sentirsi come topi chiusi in una gabbia». A parlare è la grande scrittrice, autrice di "Bagheria", di "La lunga vita di Marianna Ucria" e molti altri romanzi, che ha svolto diversi seminari negli istituti di pena romani: «La detenzione dovrebbe aiutare le persone a riflettere, non a difendersi dalla ressa, dall’inerzia e dalla totale mancanza di spazio e di libertà»
L’anno scorso nelle carceri sono stati 83 i suicidi, secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà personale (dati al 20 dicembre 2024), 90 secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti (dati al 31 dicembre 2024). E già sono otto i detenuti che si sono tolti la vita nel 2025. Mentre il sovraffollamento ha raggiunto il 132,05% (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili, dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, al 10 gennaio 2025). «Il sovraffollamento è una forma di tortura», dice la scrittrice Dacia Maraini.
Maraini, nelle carceri l’emergenza è da tempo strutturale…
È grave che in tanti anni nessun Governo abbia pensato ad allargare le carceri del nostro Paese. Non si può pretendere che otto persone stiano pigiate dentro una cella di tre metri per tre, come raccontano alcuni carcerati. Uno dei motivi dei tanti suicidi dipende proprio da questo: il carcere dovrebbe essere un posto dove si paga una colpa ma con dignità e, come dice la Costituzione, con la possibilità di studiare, lavorare, giocare, dormire senza sentirsi come topi chiusi in una gabbia.
Con una sentenza dello scorso 2 gennaio la prima sezione penale della Cassazione ha stabilito che il ricorso di un detenuto del carcere di Asti, per poter svolgere colloqui con la moglie in intimità, non può essere dichiarato inammissibile dall’ufficio di Sorveglianza di Torino dopo che l’istituto di pena aveva rifiutato la richiesta dell’uomo poiché «la struttura non lo consente». Nella sentenza si dice che la richiesta «di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità» è un diritto e non «una mera aspettativa» da parte del detenuto, riprendendo la motivazione della sentenza della Corte costituzionale del 26 gennaio 2024. Cosa vuole dirci sul diritto, in carcere, ad avere colloqui in intimità con il proprio partner?
Il carcere dovrebbe aiutare le persone a riflettere, non a difendersi dalla ressa, dall’inerzia e dalla totale mancanza di spazio e di libertà. Ma qui viene fuori la questione della scarsità del personale. Perché un Paese benestante come il nostro non riesce a investire su un settore così importante della vita sociale? Fra l’altro, molti sono in carcere per droga. E non è giusto che si trovino in mezzo ad assassini e rapinatori. Chi ha a che fare con la droga dovrebbe essere trattato a parte sapendo che spesso gli spacciatori sono drogati che lo fanno per sopravvivere.
Il carcere dovrebbe aiutare ad uscire dalle proprie cattive abitudini mentali e psicologiche
Lei ha scritto «Il carcere dovrebbe essere il luogo dove si impara un mestiere e si assimila l’abitudine di relazionarsi in modo costruttivo e pacifico con gli altri e non solo uno spazio angusto di forzato ozio che suscita pensieri lugubri», in un articolo per Il Corriere della Sera. Bisognerebbe in primis lavorare su questo, per cambiare veramente gli istituti di pena?
Certo. Ripeto: il carcere dovrebbe aiutare le persone a riflettere su di sé e sul rapporto col mondo che evidentemente ha subito delle alterazioni pericolose e dannose per la comunità. Io non credo che una persona agisca male per ragioni biologiche. Questo lo credeva Lombroso, che dalla forma del cranio o dalle orecchie stabiliva se uno era nato criminale. Oggi queste teorie fanno solo ridere. Gli esseri umani nascono uguali. Nessun bambino nasce criminale, ma lo può diventare se ha delle cattive esperienze infantili, se non viene amato e curato, se si trova in ambienti dove prevale il cinismo e la crudeltà. Per questo il carcere dovrebbe aiutare ad uscire dalle proprie cattive abitudini mentali e psicologiche. Per alcuni è troppo tardi e non cambieranno, ma per tanti altri invece può essere una occasione di ripensamento e di modificazione della propria visione del mondo.
«Insegnare a queste persone l’uso della scrittura è molto importante», ha affermato in un’intervista a Vatican News, riferendosi ai detenuti. Può spiegarci perché?
Perché si passa dall’uso delle armi all’uso della parola e la parola è sempre legata al pensiero, mentre le armi sono legate più ai sentimenti che al pensiero. Molti sparano per vendicarsi e la vendetta è un sentimento e non ha niente a che vedere con la giustizia che è legata alla ragione. Persino le guerre, come possiamo constatare in questo momento con la guerra di Gaza, nascono da un forte e dannoso sentimento di vendetta biblica.
Insegnare ai detenuti la scrittura è molto importante perché si passa dall’uso delle armi all’uso della parola e la parola è sempre legata al pensiero, mentre le armi sono legate più ai sentimenti che al pensiero
Lei ha fatto diversi seminari nelle carceri romane assieme al magistrato Vincenzo Anania parlando di libertà e di poesia. Può raccontarci qualcosa di questa esperienza?
Anania, un magistrato che ho stimato e per cui ho avuto affetto, mi ha proposto di andare a parlare con i carcerati. Io ho accettato e insieme abbiamo fatto molti incontri a Rebibbia, sia con i comuni reclusi che con quelli politici. I politici erano restii alle riflessioni, piuttosto chiusi nelle loro sicurezze, mentre i comuni erano molto più disponibili alla comunicazione e spesso rivelavano coraggiosamente le loro fragilità e paure. Erano attratti dalla parola narrativa e si capiva che dentro di loro qualcosa lentamente stava cambiando. Credo di avere imparato molto da questi incontri.
Foto Mauro Scrobogna/LaPresse
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