Welfare
Carcere,rapporto dal pianeta proibito
Abolizione dell'ergastolo,diritto allaffettività,scarcerazione deimalati di Aids e delle mamme recluse...
«Avevo un mal di denti che mi faceva uscire pazzo e solo dopo qualche giorno sono riuscito ad andare in infermeria, scortato da una guardia. Ma il dottore mi ha voluto curare un altro dente che era sano e davanti alle mie insistenze mi ha fatto ?rapporto? e così sono finito in isolamento». Questo brano di una lettera inviataci da Marco, ex detenuto di Poggioreale, spiega più di mille discorsi cosa sia oggi il carcere italiano. Marco nomina il paradosso di un carcere che, nonostante gli annunci a effetto nelle conferenze stampa, si ostina a non cambiare. È vero, ce lo ripetono i politici, che è stata varata la legge per la scarcerazione dei malati di Aids. È vero, ce lo ripetono ministri e funzionari, che in futuro (ma quando?) il regolamento prevederà il diritto all?affettività (e al sesso); che, forse, verrà abolito l?ergastolo; e che forse le mamme detenute con brevi condanne non dovranno più stare in carcere con i loro bambini.
Ma è soprattutto vero che se l?inferno esiste assomiglia alle carceri italiane. Per dimostrarlo, iniziamo con questo numero un viaggio negli istituti di pena, dove abbiamo raccolto le mille voci impaurite, e irate, di chi ci vive. Il risultato? I suicidi e gli atti di autolesionismo sono in aumento. Gli istituti scoppiano, proteste, intimidazioni e maltrattamenti sono all?ordine del giorno. I magistrati di sorveglianza, intimiditi dall?incubo dell?emergenza, preferiscono rifiutare le richieste dei benefici di legge e, a eccezione di qualche isola felice, ovunque predomina la paura. I direttori che cercano di difendere i diritti dei detenuti e di rispettare le leggi vengono spinti alle dimissioni (vedi intervista), altri si rassegnano a essere figure ibride, stretti fra l?assenza di politiche ministeriali coerenti e le tensioni fra polizia penitenziaria e detenuti.
La famigerata “cella zero” di Poggioreale
Il carcere è un mondo strano, popolato più da sussurri che da voci, frasi lasciate a metà che dovrebbero far capire, ma non spiegano mai. Muri di gomma in cui rimbalzano ricatti silenziosi, denunce anonime. Uno Stato nello Stato fatto di leggi non scritte, consuetudini mai sradicate. Insomma, un mondo che non cambia mai. Soprattutto al Sud dove i detenuti denunciano abusi e violenze da mesi. Da Poggioreale, il carcere napoletano dove 1800 detenuti vivono ammassati come sardine, Filippo (il vero nome è un altro) ci racconta: «In ogni cella ci sono da 6 a 25 detenuti. Il 50% sono tossicodipendenti, ma molti evitano di dichiararlo perché hanno paura di rappresaglie da parte delle guardie. Perché un tossico non ha soldi e quindi non è utile per nessuno. Appena entri, le guardie ti mandano in una cella con l?inganno, dicendo che il direttore ti aspetta, e invece ti pestano subito per farti capire chi comanda. Il sovraffollamento è tale che per l?ora d?aria bisogna fare i turni e così invece di quattro ore usciamo dalla cella solo due ore al giorno. Gli atti di violenza delle guardie sono continui e immotivati. A Poggioreale c?è la ?cella zero?, dove ogni giorno si odono lamenti. L?igiene fa schifo e se vuoi fare le analisi per l?Hiv devi pagare 100 mila lire. Il cibo è pessimo. Una volta c?era un padiglione per noi tossicodipendenti, ora non funziona neanche quello».
A Secondigliano, il moderno carcere di massima sicurezza costruito per i camorristi è diventato una casa di reclusione anche per tossici e detenuti per condanne brevi. I detenuti malati di Aids ricoverati nel centro clinico chiedono da mesi di essere curati adeguatamente. Racconta Giuseppe (altro nome fittizio): «Una volta mi hanno picchiato solo perché avevo la maglia fuori dai pantaloni, per ogni stupidata ti fanno rapporto e se chiedi un permesso ti rispondono che sei un ?affiliato?. Quando qualcuno si espone a fare denunce, sul rapporto viene scritto che i detenuti volevano aggredire gli agenti. Nel centro clinico i detenuti malati di Aids muoiono piano piano e nessuno fa niente».
A meno di cento chilometri c?è il carcere di Bellizzi Irpino, Avellino, dove il 25 maggio Silvana Giordano s?è impiccata alla grata della cella che divideva con il figlio di due anni. Qui, dove il comandante della polizia penitenziaria ci dice perentoriamente: «Ogni carcere è una repubblica a sé», i detenuti ammaestrati si fanno avanti per dire che ?quella? era matta. Dopo il suicidio di Silvana ci sono state interrogazioni parlamentari. Ernesto Caccavale, di Forza Italia, ci ha detto: «All?interno della sezione femminile c?erano giochi di lesbismo cui la Giordano non voleva sottostare. Cosa è successo veramente quella notte non lo sapremo mai». Un detenuto, Pino Cobianchi, trasferito improvvisamente a Siena dopo 15 anni di permanenza ad Avellino, ha denunciato un collegamento fra il suicidio di Silvana Giordano e quello di Salvatore Nocerino, avvenuto un anno prima, e ha accusato l?amministrazione penitenziara di traffici illeciti e abusi sui detenuti. Ma la storia del carcere di Avellino, che ospita 500 detenuti, non finisce qui. Un documento del dipartimento dell?amministrazione penitenziaria riporta le dichiarazioni dell?ispettore Salvatore Pastore, rimosso nel 1996 dal suo incarico: «Esistono all?interno vari centri di comando gestiti da singole unità, non tutte aventi grado di controllo adeguato; l?esistenza di questi centri può essere spiegata da un non sufficiente controllo da parte del comandante del direttore dell?istituto». In un altro documento, rappresentanti di tutti i sindacati penitenziari (Sappe, Sag, Oapp, Cisal) chiedono l?allontanamento della direttrice, Cristina Mallardo: si parla di uso privato della falegnameria, di condizioni igienico sanitarie precarie, di mancato intervento del provveditore regionale (che non ha mai adottato provvedimenti), di ipotesi di istigazione al suicidio di Silvana Giordano.
Toscana, una Tangentopoli delle mense?
Un detenuto costa allo Stato circa 220 mila lire al giorno, ma per dargli da mangiare lo Stato spende solo 3800 lire al giorno (e il resto?). La questione del vitto e del sopravitto è da sempre controversa. Il vitto giornaliero non garantisce una dieta equilibrata: il cibo immangiabile obbliga i detenuti a nutrirsi con il sopravitto che viene fornito in carcere dalle stesse ditte, a prezzi superiori ma con la stessa scadente qualità. Un giro d?affari miliardario che non è mai stato oggetto di nessun inchiesta. Un gruppo di detenuti del carcere di Sollicciano hanno presentato denuncia presso la procura della Repubblica di Firenze. A Livorno un detenuto mangia con 3150 lire, a Massa con 4.799. Una variazione spiegabile solo con il gioco al ribasso fatto dalle ditte per vincere gli appalti. Sulla pelle e lo stomaco dei carcerati. Per riuscire a mangiare ogni detenuto spende di tasca sua 750 mila lire di sopravitto al mese. Giacomo B., che appartiene all?associazione Pantagruel ci ha scritto: «Lo Stato non paga una somma sufficiente per far mangiare i detenuti e così siamo costretti a subissare le nostre famiglie. Le cose non cambiano perché c?è un giro di affari di miliardi e se niente si muove è solo perché gli ingranaggi vengono unti. Si può parlare di una Tangentopoli delle carceri?»
Benefici,lo strapotere dei giudici
È una storia infinita, quella delle leggi che non vengono applicate. Un cancro che sta divorando il carcere e lo ha trasformato in una bomba a tempo. Nonostante gli attacchi di panico e di demagogia da parte della stampa italiana, la legge Simeone-Saraceni ha scarcerato in un anno solo 300 detenuti, di cui la maggior parte arrivati a fine pena. Nel ?97 solo 704 detenuti sono stati ammessi al lavoro esterno, mentre i semiliberi sono stati 3.257. Ma nello stesso anno solo in Lombardia le richieste di semilibertà sono state più di 12 mila. Così, a San Vittore, Luigi Pagano che qualcuno ha definito l?angelo buono di un canile, lotta con il sovraffollamento per ammortizzare le tensioni dovute alla crescente presenza di stranieri (oltre il 50% dei detenuti) privi dei requisiti per usufruire dei benefici di legge: la casa e il lavoro. A Como, gli educatori si sono trasformati in volontari e cercano di procacciare lavoro per permettere ai detenuti di lasciare il carcere. I volontari invece si sostituiscono a educatori e assistenti, arrivando a chiedere l?affido di alcuni detenuti che non possono essere seguiti dai servizi sociali per mancanza di personale.
Venezia, quelle mamme dietro le sbarre
A Venezia, i magistrati rifiutano i permessi alle detenute della Giudecca, comprese le mamme così destinate a far crescere i figli nell?ambiente umido e fatiscente dell?ex convento. Marina Amato ha lanciato un appello attraverso ?Vita? per chiedere la scarcerazione di sua madre, Bianca Amato. «Ha già scontato 5 anni di condanna per spaccio di droga, è diabetica, ha seri problemi di asma e lavora in un ambiente umido che la sta uccidendo. Il magistrato non le ha permesso neanche il trasferimento per un periodo di colloqui con i figli. Abbiamo chiesto la sospensione della pena, ma finora non c?è stato nulla da fare. Alla Giudecca anche le altre detenute stanno male, ma hanno paura a protestare, soprattutto le mamme, perché pensano che prima o poi un permesso arriverà. Questo le uccide: il miraggio, il ricatto, l?illusione di libertà». La pensa così anche padre Andrea Cereser, cappellano della Giudecca da dieci anni: «La rigidità dei magistrati ha provocato una malattia che è peggio dell?umidità o della fatiscenza dell? istituto. Si chiama rassegnazione; la maggior parte delle detenute, alcune in carcere con i bambini, hanno commesso reati legati alla droga. La mancanza di un reinserimento, e di prospettiva futura, le sta uccidendo. Ho l?impressione si sia scelta la strada di gettare le persone in carcere e poi buttar via la chiave come se così fosse più semplice risolvere i problemi».
E con il braccialetto si va
In Gran Bretagna il sogno di ogni recluso si è fatto realtà. Grazie a un braccialetto elettronico che consente alle autorità penitenziarie di tenerli sotto controllo, già 250 detenuti hanno potuto uscire di prigione da due settimane a due mesi prima di aver scontato interamente la loro pena. Con questo sistema, applicato a chi non abbia condanne superiori ai quattro anni, il ministero dell?Interno britannico intende arrivare a liberare fino a trentamila prigionieri all?anno. Con l?intenzione di favorirne il reinserimento sociale. Ovviamente, però, la libertà concessa ai condannati ha dei limiti. L?ex recluso non può uscire di casa fra le sette di sera e le sette del mattino dopo: in queste 12 ore il braccialetto emette segnali ricevuti e decodificati da un cervellone centrale, che verifica se il segnale proviene effettivamente dalla casa del detenuto rilasciato. I controlli diurni, invece, sono affidati a società di poliziotti privati.
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