Welfare

Carcere. Pensieri positivi oltre le sbarre

Non solo desolazione e noia. Nelle carceri è possibile anche reinventarsi una vita imparando un mestiere.

di Redazione

A Milano il teatro-danza e le guglie del Duomo, a Roma gli abiti per le sfilate, a Velletri il vino doc, a Firenze le biciclette, a Treviso i mobili d?arte e a Siracusa pane e biscotti. Tutto rigorosamente «made in jail». Piccoli frammenti di luce su un orizzonte sempre fosco: dall?inizio degli anni 90 a oggi, il numero dei detenuti occupati è rimasto inalterato, a fronte di un?impennata delle presenze che hanno ormai raggiunto quota 56.403. La percentuale degli impiegati di conseguenza è precipitata: se nel 1990 lavorava il 40% dei presenti, al 30 giugno 2003 solo il 24,2% dei detenuti godeva di un impiego. In termini assoluti sono 13.630 i lavoratori intramurari, quasi tutti alle dipendenze dell?amministrazione penitenziaria (per lo più addetti ai servizi domestici, come la pulizia dei bagni o i servizi in cucina) e quindi senza contratto e con una remunerazione, la mercede, che al netto dei contributi stenta ad arrivare a 3 euro l?ora. Tirando le fila: sono poco più di 2mila le persone con un lavoro vero e 3.879 gli iscritti ai corsi professionali attivati nel primo semestre del 2003. Tra biscotti e buon vino Il terreno dietro le sbarre si conferma quindi arido, ma talvolta capace di dare buoni frutti. Nel caso di Siracusa addirittura ?Squisiti?, dal nome dei tipici biscotti locali. Che insieme alle paste di mandorla e agli n?zulli (dolcetti messinesi simili ai cantucci) costituiscono il fiore all?occhiello della produzione di un panificio/pasticceria che sforna quotidianamente 300 chilogrammi di pane di pasta dura e 40 chili di biscotti biologici grazie al lavoro di quattro detenuti del carcere di Cavadonna assunti dalla cooperativa L?Arcolaio. Che oltre a rifornire le due mense della prigione (quella dei 400 detenuti e quella dei 300 agenti) approvvigiona le botteghe biologiche ed equosolidali nonché molti supermercati della zona iblea. «L?attività è appena iniziata, fatturiamo 13mila euro al mese, mentre i detenuti arrivano a prendere una mensilità di 600/700 euro», annuncia Alfonso La Pira, vicepresidente dell?associazione, che sta già pensando di allargare il giro d?affari esportando la produzione tipica anche nel resto d?Italia. Placata la fame, c?è da pensare agli assetati. E chi meglio di Marcello Bizzoni? Enologo di professione, finito nei guai e oggi capocantina nella casa circondariale di Velletri, in provincia di Roma. Bizzoni, che da libero gestiva un?azienda da 12 miliardi di lire di fatturato annuo, da carcerato produce 17mila bottiglie all?anno. Attualmente dalla prigione laziale escono sei eccellenti etichette (nel 2003 recensite anche dalla rivista Il mio vino): Novello Igt rosso, Velletri doc bianco, rosso e barricato, e vino da tavola rosso e bianco, della cui vendita si occupa una cooperativa costituita ad hoc. Dopo un buon pasto cosa c?è di meglio che un po? di sport? E qui il ventaglio è ampio, tra i combattutissimi tornei di calcio intramurari (a Opera c?è una squadra di detenuti che gioca in Figc, mentre a Brescia e Torino agenti di custodia e carcerati studiano da arbitri); nessuno però aveva ancora pensato alla bicicletta. La fabbrica del Duomo La lampadina si è accesa nella testa di Riccardo Zoppi della cooperativa Ulisse di Firenze. Ogni anno la depositeria comunale del capoluogo toscano recapita al carcere di Sollicciano 1.500 bici. «Si tratta di mezzi abbandonati che prima venivano rottamati», ricorda Zoppi. Mentre oggi finiscono nelle sapienti mani di 4 detenuti addetti all?officina interna che fra viti, catene e grasso ne rimettono in strada oltre il 60%. Passando dai manubri e sellini fiorentini al Duomo di Milano, le cose cambiano poco. Di mezzo ci sono sempre le abili mani dei carcerati. Turisti e cittadini probabilmente lo ignorano, ma l?opera di restauro della cattedrale meneghina non conosce interruzione. Da secoli se ne occupa la Veneranda Fabbrica del Duomo, l?unico ente che dal 1396 ha la patente per estrarre marmo dalle cave di Candoglia e che dal 1998 consegna il prezioso materiale allo stato grezzo nel carcere di Opera, dove 5 scalpellini si occupano del restauro di sezioni di ornato, guglie, crespe e pinnacoli. «Ci sono voluti tre anni di studio per formare questa squadra di addetti alla lavorazione dei marmi», testimonia Mafalda Occioni, consigliere d?amministrazione della cooperativa Arti@mestieri, ideatrice del progetto La libera bottega dell?arte. Di sicuro successo anche la falegnameria interna al carcere di Treviso, gestita dalla cooperativa Alternativa presieduta da Antonio Zamberlan che, grazie al lavoro di 12 detenuti di cui 5 extracomunitari, fornisce alla ditta Caramel oltre 100 modelli di mobili in arte povera, riuscendo, con le agevolazioni della legge Smuraglia, perfino a sostenere la concorrenza delle imprese dell?Est europeo che stanno costringendo alla chiusura molte altre falegnamerie del Triveneto. Il sogno della passerella Ma nemmeno in carcere si vive di solo lavoro. Anzi. Michelina Capato Sartore è una regista e insegnante teatrale. Da due anni, grazie all?appoggio di Lucia Castellano, direttore del carcere sperimentale di Bollate, alla periferia di Milano, ha avviato un corso di formazione di teatro-danza. La sua ultima rappresentazione, aperta al pubblico, è recentessima, a inizio marzo. «Abbiamo messo in scena Nel tuo sangue, una raccolta di poesie di Giovanni Testori», racconta la Caputo. La sua compagnia è composta da una cinquantina di attori e da una troupe di macchinisti, fonici e tecnici luce (tutti detenuti) che hanno imparato la professione grazie a un corso di formazione tenuto dall?associazione Estia. Ma come si lavora con protagonisti tanto acerbi di palcoscenico? «Sono i migliori attori con cui si possa lavorare», risponde la regista, «la detenzione è un?esperienza che ti capovolge l?esistenza, che ti colloca in un ruolo e in un ambiente estraneo, e quindi ti insegna a recitare una parte». Dal palcoscenico alle passerelle il passo è breve. Non potranno vivere il sogno di essere modelle, ma almeno potranno vestire le loro top model preferite. Grazie a un corso professionale tenuto in collaborazione con l?Istituto europeo di design di Roma, 40 detenute di Rebibbia disegneranno una ventina di abiti che sfileranno nell?edizione di luglio dell?alta moda romana.


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