Welfare

Carcere: lavora solo 1 detenuto su 3 (e grazie alle cooperative sociali)

Uno studio condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia dimostra come le persone detenute che lavorano per cooperative sociali dentro agli istituti abbiano molte più opportunità reinserirsi nella società dopo la pena

di Luca Cereda

Lo studio condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia ha un titolo molto chiaro rispetto all’obiettivo della ricerca: “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere”. E mette al centro i benefici dell’attività lavorativa nel percorso di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. «Oltre ad azzerare o quasi la recidiva una volta scontata la pena, il lavoro tra le sbarre dona “una seconda vita” e maggiore dignità, previene la depressione e l’ansia tenendo la mente occupata e diminuendo l’uso di farmaci e aumenta l’autostima della persona».

Aumentare i detenuti-lavoratori vorrebbe dire anche maggior indotto per tutti, anche per lo Stato. Sono gli stessi report del Ministero della Giustizia ad evidenziare che in carcere lavora solo il 34% dei 56mila detenuti attuali, e che le persone che seguono percorsi trattamentali individualizzati e lavorano, non ritornano a delinquere (la recidiva si abbassa a meno del 2%). Mentre le persone detenute che non accedono a percorsi trattamentali, senza un lavoro , nel 70% dei casi tornano a delinquere: 7 su 10 ritornano a delinquere, vengono arrestati e ri-processati e scontano di nuovo una pena. Con grandi costi economici e sociali per lo Stato.

Il lavoro in carcere: una seconda vita

«A 54 anni, sono entrato in carcere a Padova. Era il 2011 – racconta Marzio -, già i primi giorni, soprattutto le prime notti, le ho passate senza lavorare e senza avere nulla nella testa. Il vuoto: mi pareva di non servire più a nessuno. In carcere ci finiscono persone, non bestie. A salvarmi è stato il supporto dei volontari, e il lavoro che la Cooperativa Giotto mi ha proposto all’interno del carcere, nel reparto dei “contact center”, che ora, cotanta la mia pena, dirigo. Il lavoro, quello vero, è stata la chiave per aprire questa nuova vita e che mi ha riportato ad essere utile». Il lavoro, quello vero, non i “lavori domestici” alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ma che gli istituti di pena considerano “lavoro in carcere”: lo scopino, lo spesino, il porta vitto. «Ho potuto e molti come me hanno potuto ritornare ad essere non più parassiti delle nostre derelitte famiglie, ma capaci di inviare gran parte del nostro stipendio ai nostri famigliari, permettendoci così piano piano di rialzare la testa e di riacquistare un minimo di dignità», conclude Marzio, a cui lo studio di Fondazione Zancan, Acri e Fondazione con il Sud da ragione scientifico-statistica a quella che è la sua – e di molti, ma troppo pochi – detenuti ed ex detenuti.

La differenza tra chi lavora e chi no, in numeri

Nello studio sono stati coinvolti oltre 300 detenuti in tre istituti penitenziari italiani (Torino, Siracusa e Padova), circa un terzo dei quali lavoratori alle dipendenze di cooperative, un terzo lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (Ap), un terzo non lavoranti. «L’età media di chi lavora alle dipendenze di cooperative o dell'Ap è di oltre 44 anni. I detenuti che non lavorano sono i più “giovani di detenzione” perché anche in carcere i più giovani sono svantaggiati nell’accesso al lavoro, per scarsità di offerta. Due terzi dei partecipanti allo studio sono nati in Italia», dice il rapporto finale. «Lavorare fa bene al corpo e alla mente», chiosa Marzio, e lo studio gli dà ragione: il peso medio dei detenuti incontrati oscilla intorno agli 80 chilogrammi. Per persone con obesità sono tra chi non lavora il 14,4%, tra chi lavora per l'Amministrazione il 15,5%, mentre tra chi lavora per le cooperative solo il 7,8%. Chi soffre di depressione in carcere ed è scoraggiato dal proprio futuro sono il 20% di chi lavora per cooperative, il 25% circa di chi lavora per l’Ap, e si cresce fino al 55% di chi non lavora.

Lavorare dentro aiuta nel rapporto con il “fuori”

Per quasi tutti i detenuti – oltre il 90%, a prescindere dalla condizione lavorativa o meno – emerge l’importanza di “amare i propri cari” e dare valore alla famiglia che sta fuori. È il punto di riferimento che “dà speranza”. «Le persone intervistate descrivono l'aiuto che riescono a dare alla propria famiglia, in particolare ai figli per farli studiare grazie al lavoro. Per i detenuti lavoratori, la possibilità di aiutare significa dignità che nasce dal “non pesare” sui propri cari e di essere utile alla società», continua il rapporto. «Il lavoro in carcere serve per portarti fuori dalle mura», ammette Gianluca, 48 anni, entrato nel carcere Vallette di Torino nel 2012. «In carcere avevo perso anche quel poco di dignità che sentivo. Mi sentivo una completa nullità. Il carcere è un luogo molto ostile, mentre dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, dove ricevere un aiuto per non ricadere nelle stesse dinamiche di devianza. Ma purtroppo non è così. Mi ha aiutato il lavoro che la Cooperativa Extraliberi che mi ha proposto all’interno del carcere, così sono diventato un serigrafo e ho imparato a stampare magliette».

Gianluca aveva già lavorato fuori dal carcere, ma alle Vallette di Torino ha iniziato a ridare un senso alle sua giornate, a sentirsi responsabile di quello che faceva: «Con lo stipendio è arrivato un minimo di autonomia, per piccole spese quotidiane, per inviare un po’ di aiuto ai miei genitori».

Il lavoro in carcere rende: è una vittoria (nei numeri e) nel risultato per tutti

Considerando le cooperative che danno lavoro nei tre istituti penitenziari presi in esame dalla ricerca, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa. «Parte della ricchezza prodotta si traduce, al netto degli sgravi fiscali e contributivi – prosegue la ricerca -, in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno per cooperativa in media). Le cooperative coinvolte impiegano mediamente un ex detenuto, ogni 2 detenuti. La produzione delle cooperative sociali conta su un “indotto” per altre aziende, clienti e fornitori, in media oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa».

«In carcere a Padova oltre a lavorare con la cooperativa Giotto, grazie all’accordo con l’Università di Padova ho intrapreso un percorso di studi per la laurea in giurisprudenza, che ha contribuito a migliorare le competenze lavorative, ad accrescere l’autostima e a dare un messaggio alle mie figlie che ogni tempo, anche quello peggiore, va speso bene», spiega Marzio.

Parlare di carcere e lavoro, di carcere e formazione al lavoro, non è parlare del futuro: significa analizzare il valore reale e l’impatto sociale che il lavoro ha all’interno degli istituti di pena. Perché i grandi cambiamenti anche in questo ambito così spesso immobile e chiuso per antonomasia, possono essere realizzati solo con il coinvolgimento e la partecipazione della società civile, detenuti e istituzioni carcerarie compresi.

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