Welfare

Carcere, la lezione di Kiran Bedi che l’Europa non vuol capire

Il saggio di Francesco Occhetta su La Civiltà Cattolica mette spalle al muro la maggioranza degli operatori del diritto europei: «Avvocati, magistrati, notai, funzionari pubblici, deputati — che, invece di scommettere e di ripensare la pena e la rieducazione secondo la tradizione dell’umanesimo occidentale, hanno scelto di aderire al positivismo giuridico»

di Redazione

«Agli inizi degli anni Duemila alcune cattedre di diritto penale esaminarono in modo approfondito la riforma del carcere di Tihar a Nuova Delhi, in India, come possibile modello di rieducazione. La riforma, elaborata dalla direttrice Kiran Bedi, si basava su un’idea di carcere correzionale, collettivo, comunitario, e poneva al centro del modello la meditazione profonda. In soli due anni la recidiva di quel carcere di 10.000 detenuti scese dal 70% al 10%, grazie agli effetti della meditazione, che permetteva ai detenuti di conoscersi interiormente e di comprendere il male compiuto. Al termine del Giubileo della misericordia, la proposta continua a provocare gli Ordinamenti civili a una conversione culturale che includa nel modello rieducativo la dimensione spirituale della persona».

Parte da qui la riflessione che il padre Francesco Occhetta, redattore e scrittore de La Civilità Cattolica firma sull’ultimo numero della rivista dei gesuiti sotto il titolo di “La meditazione, via per riabilitare i detenuti”.

Negli ultimi 20 anni il modello di Kiran Bedi, direttrice del carcere più grande dell’Asia, è stato esportato in molte parti del mondo: dagli Usa alla Nuova Zelanda, dal Regno Unito all’Australia, fino a includere alcuni Paesi del Nord Europa.

«In quale modo Kiran Bedi è riuscita a realizzare il compito che altre riforme penitenziarie avevano visto fallire?» si chiede Occhetta. «Quando, nel maggio del 1993, la Bedi diventa direttrice di Tihar, nel carcere mancano tutte le condizioni igieniche e culturali per una riabilitazione umana. In un suo scritto spiega di essere stata abbandonata dal suo Governo e di rendersi conto di come i suoi subalterni puniscano perché si sentono puniti. Tuttavia, invece di rispondere al male con il male, promuove quella che definisce la «cultura delle colombe» — una serie di pratiche, azioni e atteggiamenti interiori —, in grado di sconfiggere la «cultura dell’avvoltoio» vigente nel carcere, in cui il più forte e prepotente attacca dall’alto la preda più debole per «sfamarsi». Secondo la Bedi, dal momento in cui si abdica alla responsabilità di sentirci tutti uguali — anche all’interno di un carcere in cui, al di là del numero, esiste la persona — si cessa di essere soggetti morali.

Ai responsabili dell’amministrazione penitenziaria la direttrice chiede di interrogarsi: perché è stato commesso il crimine? Quali circostanze hanno portato l’accusato a compierlo? Quali sono i motivi ambientali e psicologici che lo hanno condizionato? Quale influenza hanno avuto i familiari e gli amici del reo? La polizia aveva indizi capaci di prevenire il crimine? Cosa avrebbe fatto l’imputato una volta rilasciato? Queste ed altre domande hanno condotto lo staff del penitenziario a una considerazione olistica e integrale della riabilitazione».

Continua il racconto di Occhetta: « La direttrice inaugura la prassi, definita on the round, di visite quotidiane, accompagnata dai suoi collaboratori, per rendersi conto delle reali condizioni dei detenuti: «In giro significava andare di baracca in baracca e di cella in cella; mentre camminavo per la prigione, osservavo, interagivo, chiedevo, imparavo, risolvevo, migliorando e assicurando il miglioramento continuo delle decisioni prese. Questo modo di fare ebbe un impatto sullo staff presente, che era spinto a superare le difficoltà, e a risolvere i problemi»3. Non si trattava di ispezioni a sorpresa, per punire o richiamare i responsabili, ma dell’esperienza del vedere chi, come e che cosa stava vivendo nelle celle».

Da qui la svolta: «Quel «contagio positivo» ha modificato l’ambiente al punto che gli ufficiali hanno cominciato a guardare in faccia i detenuti che subivano le conseguenze delle loro decisioni. I detenuti non si potevano più lamentare di essere ignorati. I responsabili dell’amministrazione riprendevano fiducia nel loro lavoro, perché avvertivano un fine educativo da promuovere. Un altro strumento efficace della riforma è stato il corretto investimento sulla comunicazione: attraverso la petition box («cassetta mobile delle petizioni»), una scatola in cui i detenuti potevano lasciare, con la garanzia della massima segretezza, le loro richieste di informazioni, assistenza e cure mediche, la direttrice comunicava direttamente con tutti i detenuti. Con il passare del tempo, quella scatola, da strumento di denuncia e di sfogo, si è trasformato in una sorta di confessionale, in cui i detenuti parlavano di sé attraverso poesie, disegni, racconti autobiografici».

Occhetta definisce quello di Bedi un modello pedagogico-educativo: « Gli agenti, oltre a garantire la sicurezza e l’ordine, coordinavano anche l’attività fisica, il giardinaggio e le attività umanistiche. L’organizzazione interna della sicurezza non si limitava a regolare la struttura, ma prevedeva incentivi per il personale e una gestione più umana dei tempi della giornata, che a poco a poco sostituiva vecchie abitudini, come quella di svegliare i detenuti con le sirene degli allarmi o di non aerare le celle. Il fatto di orientare le motivazioni degli agenti ha qualificato questi ultimi umanamente e professionalmente. Nel suo diario, la direttrice precisa: Ci fu facile individuare le guardie che seguivano le nostre iniziative e quelle che invece cercavano di sfuggire ai loro doveri: le loro qualità reali divennero visibili».

Ma c’è di più. «La direttrice decise di spalancare le porte del carcere alla comunità civile, facendo sapere che la struttura aveva bisogno di libri e di studenti per approfondire la conoscenza di quel mondo. L’incontro tra l’esterno e l’interno ha restituito in breve tempo significato a parole come «determinazione», «incontro» e «verità». Grazie ai volontari, i detenuti sono ritornati sui banchi di scuola due ore al giorno, dalle 9,00 alle 11,00. Erano divisi in gruppi, in base al loro grado di formazione, ma per tutti valeva il motto: non è mai troppo tardi per imparare». Per soddisfare questa esigenza, come era già avvenuto con lo staff penitenziario, Kiran Bedi ha sviluppato un «sistema cooperativo (panchayat) dei detenuti. Si trattava di un insieme di comitati (per l’educazione, la pulizia dei reparti, la mensa, lo sport, la cultura, l’assistenza legale e la meditazione) con il compito di autogovernarsi. Una sorta di autogestione degli spazi e del tempo che aveva come fine il coinvolgimento attivo dell’intera comunità carceraria». Poi c’è il ruolo die media. Decisivo nell’ottica della direttrice, che ne faceva un uso consapevole. «I media fornivano una critica analitica del lavoro svolto dalla gestione del carcere, parlavano della lentezza dei processi, delle condizioni di vita disumane, degli avvocati che non si trovavano mai, dell’applicazione delle leggi da parte di funzionari corrotti e insensibili e dell’indifferenza della comunità nel suo insieme. La pressione della stampa ha fatto sì che l’Alta Corte di Delhi nominasse una Commissione per investigare la situazione dei detenuti in attesa di giudizio o che non erano ancora stati scarcerati, nonostante l’ordinanza di cauzione emessa nei loro confronti».

In questo quadro era cruciale la funzione della meditazione. «Il centro della riforma Kiran Bedi», scrive Occhetta, «era un’antica tecnica di meditazione, il cui scopo è purificare la mente e la coscienza di coloro che la praticano. La proposta della meditazione Vipas­sana — che nella lingua indiana pali significa vedere le cose in profondità — prevedeva un corso di dieci giorni, in ambien­te chiuso, osservando uno stretto regime alimentare; durante questo periodo, dovevano impegnarsi a mantenere il silenzio, definito nobile silenzio e non potevano comunicare tra loro o all’esterno. Le giornate cominciavano molto presto al mattino (alle quattro), con otto ore di meditazione intensa, a orari ben precisi». L’impegno era rigoroso: dieci giorni di pratica intensiva, in cui rimanere in silenzio dalle prime ore dell’alba sino a sera»

Il contributo di Occhetta si chiude con una conclusione amara. Il modello Bedi è stato esportato in tutto il mondo dagli Stati uniti alla Nuova Zelanda che una sostanziale eccezione: l’Europa. «Purtroppo in Europa la maggioranza degli operatori del diritto ha soffocato l’entusiasmo e le speranze di migliaia di universitari che venti anni fa si appassionarono a tale riforma. Oltre alle speranze tradite, pesa anche la responsabilità degli studenti di allora — oggi avvocati, magistrati, notai, funzionari pubblici, deputati — che, invece di scommettere e di ripensare la pena e la rieducazione secondo la tradizione dell’umanesimo occidentale, hanno scelto di aderire al positivismo giuridico. Per molti esperti del diritto sembra impossibile innestare una pratica orientale nella cultura occidentale. Invece, la dimensione spirituale — fondamento della dimensione religiosa, riconosciuta e praticata nelle carceri italiane — aiuterebbe la difficile integrazione tra i detenuti e la loro rieducazione sancita dall’art. 27 della Costituzione. Tuttavia questa, come altre riforme, si basa sul fatto che «un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi». È da qui che, per la cultura giuridica, inizia la riabilitazione integrale del detenuto.

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