Welfare

Carcere: il volontariato è prezioso, ma va “usato” meglio

«Oggi la rieducazione dei detenuti è totalmente appaltata ai volontari, vissuti però con fastidio dal sistema penitenziario. Serve un atteggiamento proattivo e quindi di governo che renda davvero efficaci e sistemiche queste attività». L'intervista con Filippo Giordano, professore Associato di Economia Aziendale all’Università LUMSA di Roma

di Lorenzo Maria Alvaro

Un gesto simbolico dello Stato che porta i massimi vertici istituzionali nel carcere dopo le violenze del 6 aprile di agenti di polizia penitenziaria contro i detenuti. Oggi il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia sono stati in visita al penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Quelle violenze hanno riportato il tema delle carcere sotto i riflettori. Nonostante si tratti di un allarme che non è mai rientrato negli anni. «Il tasso di sovraffollamento carcerario dal 2015 a fine 2019 è passato dal 105% al 120%, per poi essere riportato al 105% con gli interventi di alleggerimento durante il 2020. Nello stesso periodo sono cresciuti significativamente gli eventi critici. Dal 2016 al 2019 gli atti di autolesionismo sono aumentati del 31,9% e i tentati suicidi del 49,5%. Questi dati sono indice non solo di cattiva qualità delle condizioni di vita delle persone detenute, ma anche del peggioramento del contesto organizzativo in cui si trova a operare l’amministrazione penitenziaria nonché di un ambiente di lavoro difficile, tossico e carico di tensione», sottolinea Filippo Giordano, professore Associato di Economia Aziendale all’Università LUMSA di Roma e Presidente della Laurea Magistrale in Management and Finance. Docente di Social Entrepreneurship all’Università Bocconi e Research Affiliate presso il centro di ricerca ICRIOS Bocconi. L’intervista

Il carcere rimane da anni un problema su cui non si trovano soluzioni. Santa Maria Capua Vetere è stata, complice le immagini, solo il motivo per cui un problema annoso è tornato di attualità. Tutti i dati ci dicono che è un sistema in difficoltà…
È così. Ed è in difficoltà sopratutto rispetto ad una parte della propria vocazione.

In che senso?
Il carcere è una modalità di esecuzione della pena ed è definita dall’ordinamento come estrema ratio. L’obiettivo del carcere è privare della libertà e isolare il detenuto. All’interno di un contesto di privazione della libertà e ad un isolamento che serve a recidere i legami con il mondo criminale e a limitare che la pericolosità del soggetto continui ad essere nociva per la comunità l’esecuzione della pena carceraria deve tendere alla rieducazione. Lo dice la Costituzione ma anche gli organismi internazionali. Perché anche le Nazioni Uniti nel 2006 si sono espresse in questo senso. L’obiettivo riabilitativo è sostanziale perché in caso contrario il costo sociale sarebbe altissimo, basti pensare alla recidiva e alla radicalizzazione criminale. Tutti gli studi ci dicono che purtroppo il carcere oggi è criminogeno e peggiorativo di tutte le condizioni di disagio sociale degli individui. Per capirci non è una situazione in cui è oggi possibile trovare una risposta alla tossicodipendenze, anzi l’aggrava. Non è un fattore in cui trovare una risposta all’integrazione sociale che spesso è una causa della delinquenza.

Qual è la situazione della rieducazione del carcere italiano oggi?
Basta pensare che l’Italia secondo i dati 2020 del Consiglio d’Europa è il secondo Paese in Europa, dopo Malta, per percentuale di numero di operatori di Polizia penitenziaria presenti negli istituti di pena, l’84,3% sul totale degli operatori, con una media Ue del 61%. Dopo di noi la Turchia con l’82,1%. In Francia, per esempio, la percentuale è del 70,1, in Spagna del 63,8 per citare alcuni Stati simili a noi per caratteristiche di sistema. Questo si traduce in rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria di 1,8 mentre tra detenuti e personale addetto alla rieducazione c’è un rapporto di 76 a 1.

E in termini di risorse?
I dati, fonte Antigone, ci dicono che nel 2020 il budget è stato di 6,8 milioni di euro a fronte di una spesa complessiva del Dap di circa 3 miliardi, in pratica 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto. Questo volume di importi è stato confermato anche per il 2021.

L’attività di rieducazione negli istituti dipende in prevalenza da iniziative volontarie…
Assolutamente. L’ordinamento penitenziario all’art.17 definisce un aspetto di valore: la necessità di una collaborazione attiva con il mondo esterno per la rieducazione. Quindi l’ordinamento penitenziario chiama la società ad un ruolo attivo. Naturalmente c’è, in questo, la ricerca di un alibi, nel delegare totalmente il tema.

Nel senso che in qualche modo è quello che succede?
I volontari apportano risorse, impegno e competenze al servizio della causa. Un attivismo lodevole e importante senza il quale le carceri sarebbero luoghi di mera detenzione, ma insufficiente e spesso non adeguato rispetto ai fabbisogni reali dei detenuti. Le criticità sono molteplici. I progetti coinvolgono pochi detenuti e non sono continui nel tempo poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I volontari non ricevono alcun tipo di formazione e pochi sono gli attori che professionalmente si dedicano alla rieducazione dei detenuti. Inoltre, l’amministrazione penitenziaria abdica a un ruolo di governo di questi interventi, i cui esiti in termini di impatto non sono monitorati e quindi non conosciuti.

Come riformare il sistema?
I Paesi che hanno intrapreso percorsi di cambiamento hanno contrastato l’affollamento con misure alternative e combattuto la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi, la socialità, il lavoro, l’istruzione e la responsabilità registrando miglioramenti nelle condizioni carcerarie e, conseguentemente, nel recupero dei detenuti. Gli esempi di Norvegia e Germania lo dimostrano. È importante sottolineare come questi Paesi siano passati attraverso importanti riforme giuridiche che hanno reso possibile un’organizzazione e un’allocazione delle risorse più funzionale alla missione riabilitativa del sistema.

Nel concreto che cosa si può fare?
Bisogna affrontare le criticità del sistema che nascono dall’affidarsi totalmente al volontariato

Quali sono?
C’è in primo luogo un problema di tipo quantitativo. A livello nazionale c’è una forte sperequazione rispetto all’offerta trattamentale rispetto ai vari istituti. I carceri milanesi godono del dinamismo cittadino che è molto maggiore rispetto ad altri contesti. Poi c’è un problema qualitativo: gli istituti hanno fame di progetti e tendono ad accettare tutte le proposte che gli vengono presentate. Questo però genera uno squilibrio rispetto alle attività a seconda del territorio. Il carcere farà sport e non formazione professionale se il territorio offre quel tipo di attività piuttosto che percorsi culturali invece che sport. Non c’è match tra fabbisogno dei detenuti e offerta. Ma per esserci serve un atteggiamento proattivo e quindi di governo. Le attività trattamentali previste sono di varia natura, lo prevede l’ordinamento. Dalla formazione professionale all’istruzione passando per esperienze culturali e artistiche espressive, fino alla genitorialità e alla pet terapy. Sono tutte importanti perché ciascuna attività produce un impatto diverso. La rieducazione è un lavoro, una professione.

Significa che non può essere gestita come oggi?
Certo. Anche io ho fatto il volontario in carcere. L’ho fatto senza che nessuno mi abbia spiegato come e cosa dovevo fare. Non si può approcciare questo tema come se fosse un’attività qualunque. Bisogna governarla, potenziare corsi di formazione e professionalizzazione dei volontari. Se l’obiettivo di un’organizzazione è educare le persone detenute serve allineare la governance e le professioni interne all’obiettivo.

Anche il carcere però spesso e volentieri è escludente e vive con fatica l’ingresso dei volontari e delle associazioni…
Non c’è dubbio. Oggi l’attività rieducativa dipende dalla tenacia e perseveranza con cui l’associazionismo bussa alle porte del carcere e lavora in un contesto spesso respingente. Quando parlo di governance mi riferisco anche al fatto che vengano create le condizioni che sostengano questo intervento esterno. Per avere un carcere che rieduca oggi avremmo bisogno di risorse maggiori, magari chiedendo finanziamenti anche da parte dell’amministrazione penitenziaria, e un’organizzazione affinché l’intervento riabilitativo sia efficace, quindi un approccio più collaborativo con il mondo del volontariato.

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