Welfare

CARCERE. “Ergastolo ostativo, una condanna a morte”

Lettera di Paolo Ramonda, presidente dell'associazione Comuità Papa Giovanni XXIII, alla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Comunità di don Benzi chiede l'abolizione dell'impossibilità, per un ergastolano ostativo, di beneficiare del reinserimento

di Daniele Biella

Una chiara presa di posizione per dare a tutti la possibilità di reinserirsi nella società. Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è stato il primo firmatario di una lettera appello al Presidente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per sollecitare la discussione del Ricorso proposto nel 2008 dagli ergastolani ostativi ai benefici per il reinserimento sociale, per denunciare che in Italia esiste una pena che non finisce veramente mai (art.4 bis o.p.).

Ramonda nella relazione sullo stato della Comunità ha dichiarato: “L’ergastolo ostativo è come una condanna a morte, non prevede alcun beneficio, sconto, né permesso, niente. Il detenuto non è la sua pena, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Non si tratta di evitare le pene, né di dare facili regali e neppure di fare finta che non abbiano commesso reati pesantissimi. Ma bisogna garantire senza buonismi, il recupero di chi ha sbagliato. Chi è in carcere deve pagare il proprio debito, ma avere il diritto di riabilitarsi. Questo tipo di ergastolo va abolito”.

La Comunità Papa Giovanni XXIII sostiene l’abolizione dell’ergastolo ostativo (art. 4 bis o.p.), affinchè ogni detenuto possa avere la possibilità di dimostrare il proprio cambiamento  e possa svolgere un progetto personalizzato che gli dia la possibilità di essere reinserito nella società.
 
“Sosteniamo che l’ergastolo senza benefici per il reinserimento sociale (art. 4 bis o.p.) è incostituzionale”, prosegue ramonda, “perché l’art. 27 della nostra Costituzione recita: ‘Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato’.  Invece le persone condannate all’ergastolo ostativo con la motivazione di aver  agevolato l’attività dell’associazione criminosa (Divieto di concessione di benefici: art. 4 bis L. n. 354 del 1975), anche se hanno già scontato 20-30 anni di reclusione e hanno ampiamente dimostrato il loro cambiamento interiore di vita all’interno degli istituti carcerari, non protranno uscire veramente mai dal carcere e, dunque, non si può parlare del fine rieducativo della pena”.
 
“Noi crediamo che la rieducazione contenga in sé il principio di reinserimento sociale della persona”, conclude il presidente della Comunità, “senza reinserimento non c’è rieducazione“.


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