Detenzione

Carcere, è tempo di andare oltre i diritti

Un incontro dedicato alla condizione dei detenuti transgender, che si è svolto a Roma, è stato l'occasione per riflettere sullo stato della detenzione in Italia. Tante le carenze e le difficoltà: assenze strutturali, mancanza di un dibattito pubblico serio, vuoto istituzionale sul post carcere

di Ilaria Dioguardi

Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, che dalla fine degli anni Ottanta si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale, sono soltanto sei dei 189 istituti penitenziari presenti nel nostro paese quelli che accolgono le 72 persone transgender attualmente detenute. «Per loro la reclusione diventa l’espiazione di una colpa verso una società che a oggi non si è ancora rivelata capace di tutelare i loro diritti. Malgrado le convenzioni internazionali impongano alle autorità penitenziarie la tutela della salute dei detenuti, sono ancora troppe oggi le mancanze oggettive e assolutamente insufficienti le soluzioni messe in atto per compensarle», ha detto Flavia De Gregorio, membro della Commissione Politiche sociali di Roma che ha organizzato Qui non finisce tutto: più diritti nelle carceri, terzo di un ciclo di convegni dedicato alla comunità transgender.

Il nome dell’incontro prende spunto dalla frase «Qui finisce tutto», con cui Cloe Bianco, ex professoressa transgender vittima della transfobia, scelse sul suo blog, nel giugno del 2022, di dire addio alla vita prima di suicidarsi. «La sezione transgender di Rebibbia, inaugurata alla fine degli anni Settanta, è nato come carcere modello per il mondo intero. Era l’unico carcere in Italia che, nel carcere maschile, aveva una sezione transgender», ha affermato Leila Pereira, presidente di Libellula aps. «Abbiamo iniziato dalla fine degli anni Novanta, con la nostra associazione, a organizzare dei progetti con la sezione transgender. Dovevamo togliere anche tanti pregiudizi, presenti nel carcere. Ad esempio, le transessuali non potevano avere vestiti da donna né parrucche. Siamo riuscite a ottenere che possano indossare parrucche (sobrie) e vestiti da donna. Ma c’è ancora tanto da fare, per quanto riguarda i pregiudizi».

L’incontro Qui non finisce tutto: più diritti nelle carceri si è svolto a Roma, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio

«Manca molto fare cultura intorno al tema delle carceri, in particolare delle detenute transessuali. Roma è stata 20 anni fa la prima città a istituire la figura del garante delle persone private della libertà personale», ha affermato Valentina Calderone, che ricopre questo ruolo per Roma Capitale. «Nel corso di 20 anni il ruolo si è molto modificato, è una figura di garanzia che non ha poteri dispositivi ma di monitoraggio, dialoga con le altre istituzioni. Chi vive in detenzione è un pezzo del nostro Paese, della nostra città: non li vediamo in giro, ma abitano il nostro territorio. Bisogna ricomprendere questo pezzo di città, riconoscerla e provare a trovare soluzioni per agire insieme. Quando si entra in carcere si ha la sensazione che finisca tutto, bisogna lavorare per trovare delle connessioni con il fuori, dove si tornerà. Dobbiamo trovare dei percorsi che abbiano senso e diano una prospettiva di futuro», ha continuato Calderone. «Molti studi, soprattutto europei, dimostrano che, nella stragrande maggioranza dei casi, una donna autrice di reato ha subito violenza nella sua vita: economica, familiare, domestica, psicologica. Questo può essere connesso o indipendente ma è un dato di fatto. Questo è ancora più vero con le donne trans. Nella loro esperienza di vita hanno avuto momenti di prevaricazione e di violenza nel 99% dei casi».

Chi vive in detenzione è un pezzo del nostro Paese, della nostra città: non li vediamo in giro, ma abitano il nostro territorio. Bisogna ricomprendere questo pezzo di città, riconoscerla e provare a trovare soluzioni per agire insieme

Valentina Calderone

«Ha ancora senso il carcere? E se ha senso, lo ha per tutti? Sono domande che restano tali, ma la mia io ce l’ho, è un no fragoroso. Io ho l’esperienza del carcere, vivo la luce riflessa di quel dolore attraverso le voci dei miei assistiti, delle loro mamme, dei loro bambini, delle loro storie. Chiunque abbia visto il carcere dalle celle, abbia visitato i reparti dei primi giunti, dei tossicodipendenti, dei protetti sa bene che la dignità lì non c’è, neanche come ipotesi», ha detto Maria Brucale, avvocato penalista, membro del Direttivo Nessuno tocchi Caino. «In ogni cella ci sono quattro persone, spesso di etnie differenti, che quindi hanno vite, abitudini, culture diverse, che condividono uno spazio asfittico in cui ci sono letto, cucina, gabinetto che afferiscono a tutte le esigenze del vivere in totale promiscuità: spesso hanno assai meno di tre metri quadrati di superficie ognuno, a disposizione, come scritto nella Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ndr). Non è un luogo in cui mangi, ti fai la doccia, dormi in modo decoroso. Già questo è un concetto di dignità che viene meno. Poi c’è un altro tipo di dignità».


Nell’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario si legge: «Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione». «Ciascuno di questi elementi è stato inserito nel corso del tempo per sopperire ad alcune discriminazioni. Più si inseriscono le discriminazioni da non fare, più la norma dell’ordinamento penitenziario sarà discriminante perché lascerà fuori sempre qualcuno di quei “milioni di colori” che sono le persone detenute», ha continuato Brucale. «L’anno scorso si è raggiunto in Italia il più alto numero di suicidi in carcere, 85. Inoltre, c’è un numero indefinito di morti in carcere, che non si sa come sono morti. C’è una solitudine nel carcere che è fatta di tante assenze strutturali (di risorse, materiali) e soprattutto manca un dibattito pubblico concreto, leale, serio e onesto».

L’anno scorso si è raggiunto in Italia il più alto numero di suicidi in carcere, 85. Inoltre, c’è un numero indefinito di morti in carcere, che non si sa come sono morti. C’è una solitudine nel carcere che è fatta di tante assenze strutturali (di risorse, materiali) e soprattutto manca un dibattito pubblico concreto, leale, serio e onesto

Maria Brucale

«Lavoro nel carcere femminile di Rebibbia e nella sezione transgender che è nel carcere maschile di Rebibbia», ha affermato Francesca Tricarico, ideatrice del progetto teatrale Le Donne del Muro Alto e regista.

«Dopo 15 anni mi chiedo ancora perché abbia deciso di fare questo lavoro con le donne, non è affatto facile. La donna in carcere spesso ha anche tutti i suoi familiari, questo la porta ad avere meno fiducia negli altri, a sentirsi abbandonata, molte volte ha una situazione economica difficile. Ho deciso di lavorare nella sezione femminile e nella sezione transgender perché, se i detenuti uomini sono gli invisibili, le detenute donne sono gli invisibili degli invisibili e i transgender sono gli invisibili degli invisibili degli invisibili. Non siamo ancora pronti ad accettare che siano le donne a commettere dei reati, così devono subire un doppio stigma», ha continuato Tricarico. «Le donne hanno un coraggio emotivo enorme, hanno voglia di riscatto, di dare luce. Nella maggior parte dei casi, sono le responsabili dell’educazione dei loro figli: dare dignità alle donne significa dare dignità ai loro figli».

Ho deciso di lavorare nella sezione femminile e nella sezione transgender perché, se i detenuti uomini sono gli invisibili, le detenute donne sono gli invisibili degli invisibili e i transgender sono gli invisibili degli invisibili degli invisibili

«Il lavoro che facciamo nelle carceri serve un decimo ai detenuti, serve soprattutto a noi, alla società esterna. Il problema più grande è la società civile, che ha paura della verità. Perché è così forte il teatro in carcere? Perché i nostri spettacoli sono sempre sold out? Perché il teatro in carcere non ha paura di guardarsi dentro, di porsi delle domande, in una società che ha sempre più paura di farsi delle domande perché non le piacciono le risposte. Ancor di più perché alla società non piace chiedersi dove siamo, teme la verità perché vuol dire guardare quello che siamo stati. Invece ci piace sempre ripercorrere gli stessi viaggi, è una società che ha paura di riconoscere i propri bisogni», ha proseguito Tricarico. «Fare teatro in carcere è ascoltare l’altro. Questa è la forza di queste attività, che abbiamo trasformato anche in attività di inclusione lavorativa. L’importante è l’apertura verso l’esterno. La post detenzione è caratterizzata da un vuoto istituzionale importante: è importante l’attività di inclusione lavorativa. Per questo, con la mia compagnia teatrale de Le Donne dal Muro Alto, ho deciso da qualche anno di lavorare anche con ex detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione. Sarebbe importante partire dal linguaggio, le parole sono azioni: le persone in carcere non vanno rieducate, il termine rieducazione dovremmo abolirlo».

Foto di apertura Fifaliana-joy su Pixabay

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