Welfare

Carcere e società, una contraddizione solo apparente

Lettera dal carcere

di Cristina Giudici

Gentile redazione, in questi giorni stavo leggendo di un convegno dal titolo ?Carcere è società? e mi sono chiesto perché non sia stato titolato ?Carcere è società?. L?assenza di quell?accento a mio avviso non è cosa di poco conto, a tal punto che mi convinco sempre di più di quanto una persona detenuta debba fare ricorso alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi, nonostante il carcere. Sì, perché rieducare chi sta in carcere sarà possibile solo se la società accetterà di diventare parte attiva di questo percorso e se diverrà essa stessa parte essenziale di una vera azione sociale. Altrimenti la pietistica diventa consolatoria e pericolosamente aleatoria. Scrivo questo perché, nonostante la mia condizione di prigioniero, di uomo di colpa, mi ritengo parte di un insieme, in quanto sono vivo, miglioro perché parte di una collettività. In tutti questi anni di impegno nel Collettivo Verde del carcere di Voghera, ho capito che è proprio dall?esperienza che nasce la necessità di cercare ripetutamente dei chiarimenti. La spinta a mettermi in discussione, a mettermi in gioco per riuscire a conoscere di più me stesso e gli altri, mi è venuta attraverso gli incontri avuti con altre persone. In ballo non ci sono solo i dubbi derivanti dal mistero che riveste la natura umana, il cambiamento auspicato dalle leggi, che vengono continuamente emendate e stravolte dalle emergenze, leggi e decreti che dimostrano una patologia dell?assurdo persino nella loro impossibile corretta applicazione. Continuamente si parla di bilanci negativi fra costi e benefici, di sterminate responsabilità, di avventati passi in avanti. Forse è così, ma perché non chiederci come sia possibile avere delle aspettative dal trattamento risocializzante, se poi però gli investimenti a parole sono cospiscui, ma nei fatti ridicoli? Soprattutto alla luce di alcuni eventi (concessioni di benefici di legge a detenuti che poi tornano a delinquere, ndr) che, seppur rappresentano una minima percentuale rispetto a tanti altri casi di effettiva reintegrazione nel tessuto sociale, sconvolgono le coscienze e quindi l?emotovità induce a vedere solo i fallimenti e non i risultati. Il sovraffollamento in carcere è sotto gli occhi di tutti e, a mio avviso, non è solo questa la causa di certa inefficacia del reinserimento di detenuti, ma va ricercata anche nella carenza di operatori penitenziari; tutti oberati di materiale cartaceo, incapaci di far fronte alle emergenze e alle richieste. So di non possedere titoli per obiettare, ma confidando sul titolo dell?esperienza e dell?impegno, ritengo che l?altro grande problema consista nel favorire e costruire una cultura nuova, più consona allo spirito delle norme che vigono anche all?interno di una prigione. Abbiamo bisogno di una cultura complementare alla riforma penitenziaria e non in collisione con essa. Una cultura nuova che sancisca che ?il carcere è società?, e permetta a chi vive a contatto diretto con il recluso un modo nuovo di concepire e mettere in pratica la propria professionalità e responsabilità. Inutile negarlo, ancora ora, in questo pianeta sconosciuto, permane uno sbilanciamento sul versante prettamente di controllo, disciplina e custodia. La domanda che sovente pongo a me stesso e agli operatori penitenziari è se tutto questo non sia una contraddizione di termini e se un carcere che risponde a condizioni strettamente di prigionia non sia in effetti antitetico allo spirito e alle attese della legge stessa. E a lei chiedo: «Il carcere è un mondo a sé stante o fa parte della società?». Io mi sento parte della società, da essa provengo e ad essa intendo tornare a fronte di decenni di condanna espiati. Per cui la società non può lavarsene le mani o considerarmi un corpo morto, non solo perché con le sue ingiustizie, i suoi disvalori ne partorisce le devianze, ma anche perché il carcere è società. Esso ha un ?prima?, dove una persona commette il reato, un ?durante? in cui il detenuto deve vivere e non sopravvivere e un ?dopo?, perché quella persona ritornerà in seno alla società di cui è parte. Vincenzo Andraous carcere di Voghera Caro Andraous, la sua lettera arriva in redazione proprio mentre soffia forte il vento della polemica contro chi incarna i principi garantisti previsti dalla legge, come il direttore generale delle carceri, Alessandro Margara, accusato di essere stato il giudice che in passato ha concesso dei benefici a uno dei sequestratori dell?imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini. Margara è un magistrato che ha sempre avuto fede nell?uomo e nella sua capacità di riscattarsi e cambiare vita. Certo, ci vuole coraggio e si può sbagliare, ma è anche vero che, secondo le statistiche, molti ex pregiudicati a cui è stata concessa la possbilità hanno cambiato vita. Sono d?accordo con lei, il carcere e tutto quello che esso contiene, fa parte della società. E forse anche per questo lei ora può scriverci una lettera di riflessione. Dimostrando che dal crimine si può anche guarire.


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