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Canada: l’esodo dei richiedenti asilo in fuga dall’America di Trump

Dalla scorsa estate sono migliaia le persone che hanno attraversato la frontiera, dopo l’annuncio del governo americano di sospendere lo status di protezione per diverse nazionalità, tra cui Haiti ed El Salvador. Anche la macchina dell’accoglienza canadese però inizia a scricchiolare, con oltre 40mila persone che aspettano l’esito della richiesta d’asilo

di Ottavia Spaggiari

È un flusso di persone che non accenna a fermarsi quello delle migliaia di richiedenti asilo che attraversano la frontiera canadese, in fuga dall’America di Trump e dalla paura della deportazione.

Negli ultimi mesi il governo americano ha infatti annunciato la fine del cosiddetto “Temporary protected status” (TPS), uno status di cui al momento beneficiano circa 436.900 persone, pensato per offrire accoglienza ai cittadini di Paesi colpiti da conflitti, disastri o da emergenze umanitarie, per quattro delle dieci nazionalità che al momento rientrano in questo programma (Siria, Nepal, Honduras, Yemen, Somalia, Sudan, Nicaragua, Sud Sudan, Haiti ed El Salvador). Ad essere esclusi a partire dal 2019, il Sudan ( con 1.050 persone attualmente negli Stati Uniti), il Nicaragua (con 5.300 negli Stati Uniti), Haiti (con 58.600 persone) e l’El Salvador (con 262.500 persone). Un totale di 327.450 cittadini stranieri che, se non riuscissero a rinnovare il visto, dopo moltissimi anni trascorsi negli Stati Uniti potrebbero essere rimandate nei Paesi d’origine dove, in molti casi, non hanno più nulla, come ha raccontato una donna al New York Times: «ad Haiti nel 2010 ho perso la mia casa, non ho più niente lì e i miei due figli sono nati qui».

«Quando il Presidente Trump ha dichiarato che per alcune nazionalità, compresi Haiti e l’El Salvador, lo status sarebbe stato annullato, improvvisamente migliaia di persone hanno iniziato ad attraversare il confine con il Canada, per sfuggire alla minaccia della deportazione, pensando di avere più possibilità di ottenere l’asilo, oltre la frontiera», ha spiegato ai microfoni del podcast del New York Times, The Daily, Dan Bilefsky, corrispondente del quotidiano da Montreal. «La maggior parte dei migranti con cui ho parlato, mi hanno raccontano di aver lasciato le proprie case, a New York, o in altre parti del Paese. Sono salite su un autobus per Plattsburgh, nello Stato di New York e da lì hanno preso un taxi verso una parte del confine “non ufficiale” cercando di aggirare un accordo tra Stati Uniti e Canada, che prevede che la domanda d’asilo venga fatta nel primo Paese di arrivo. Infatti l’ingresso da attraverso una parte del confine “non ufficiale”, offre una scappatoia legale che consente di fare richiesta d’asilo direttamente in Canada», un appiglio legale che è ben conosciuto anche dalle autorità canadesi. «Non è come il confine con il Messico, dove ci si immagina di dover attraversa un muro. I canadesi hanno riconosciuto l’arrivo di tutte queste persone e hanno organizzato dei punti di accoglienza informale sul territorio», dove vengono offerte anche informazioni legali così da permettere alle persone di compiere la propria scelta in modo consapevole, perché, l’attraversamento della frontiera implica l’annullamento istantaneo e automatico dello status di protezione. In buona sostanza, chi decide di oltrepassare il confine, non può più fare ritorno negli Stati Uniti.

«È un sistema di prima accoglienza informale, con cui alle persone vengono prese le impronte digitali, vengono registrate, gli viene chiesto quanti soldi hanno e vengono in un certo senso accompagnati velocemente attraverso la frontiera».

Ad aver giocato un ruolo importante nell’immagine del Canada come Paese aperto agli immigrati, sicuramente la politica del premier Justin Trudeau, contraltare di Trump che, sin dai primi giorni della nuova amministrazione, a gennaio 2017, opponeva allo slogan di “America first”, una dichiarata fede nella necessità di accogliere e aprirsi al mondo e alla diversità, tanto da twittare, che chi fuggiva da guerre e persecuzione, in Canada era benvenuto. Un Tweet che arrivava poco dopo l’annuncio del “travel ban” annunciato da Trump con l’obiettivo di vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana.

Eppure per queste migliaia di persone attraversare la frontiera rappresenta un salto nel vuoto, perché se la loro domanda d’asilo dovesse essere rifiutata, sarebbe respinti, non negli Stati Uniti, ma nel Paese d’origine.

«Si tratta di una roulette russa», ha dichiarato Dan Bilefsky, «Il rischio per queste persone è che peggiorino la propria situazione». Dalla scorsa estate solo l'8% dei cittadini di Haiti che hanno fatto richiesta d'asilo hanno ricevuto una risposta positiva.

«Il sistema di accoglienza canadese è quasi allo stremo, al momento ci sono circa 40mila casi di richiesta d’asilo che aspettano di essere giudicati e non ci sono però abbastanza giudici disponibili, così che il processo può durare anche due anni», un numero a cui l’Europa è abituata, ma non il Canada la cui macchina dell’accoglienza era una delle migliori al mondo.

«Dopo essere state registrate, alcune persone sono accolte nei centri d’accoglienza, magari si mettono insieme e affittano appartamenti a basso costo. Quando fanno richiesta d’asilo, mentre aspettano l’esito, ricevono un permesso di lavoro temporaneo, così possono lavorare quasi immediatamente, un sussidio di circa 500 dollari al mese, l’assistenza sanitaria e anche lezioni di francese gratuite. Sostanzialmente tutte le risorse per iniziare una nuova vita nel Paese».

Eppure il sistema canadese fatica a tenere il passo con l’esodo dagli Stati Uniti, tanto che l’amministrazione Trudeau ha iniziato ad inviare degli emissari nel Paese per cercare di fermare l’esodo. Tra questi Pablo Rodriguez, parlamentare liberale con una storia di migrazione alle spalle, (è arrivato in Canada da bambino dall’Argentina), che come ha scritto il Los Angeles Times, è alla quarta visita nel Paese, per incontrare potenziali migranti, avvocati dell’immigrazione e attivisti. «Non potete pensare di arrivare in Canada così, attraversare il confine e rimanere lì per il resto della vostra vita», ha dichiarato durante un incontro pubblico. «Vogliamo evitare una crisi umanitaria sul confine».

Sono oltre 12.460 le persone che hanno attraversato la frontiera in Quebec, da luglio a dicembre 2017. Il picco è stato raggiunto ad agosto, con 5.530 persone arrivate in un solo mese.

Foto: Unsplash

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