L’inflazione non è uguale per tutti. Pesa di più su chi ha redditi bassi. E pesa come un macigno sull’Italia di “classe zero”. Luigi Campiglio è uno dei più importanti economisti italiani, insegna all’Università Cattolica, dove è stato anche prorettore. Da qualche mese sta lavorando a uno studio destinato a dare un quadro esatto, e per molti versi allarmante, dell’Italia nel tunnel della crisi. Con Vita ha accettato di presentare i primi risultati della ricerca, da cui emerge come i prezzi dei beni ad alta frequenza d’acquisto abbiano subìto gli aumenti più elevati. A cominciare dalla crescita, senza paragoni in Europa, del prezzo del pane. Cominciamo da qui. In Italia è aumentato del 26%, in Germania del 18%. Come si spiega una simile differenza?
È un dato che ha sorpreso anche me. Sono andato a ricontrollarlo più volte, ma non ho trovato elementi per dubitare. Uno può pensare che l’aumento sia determinato dalla richiesta di pane di maggior qualità nell’arco di questi anni. Una specie di abbandono della michetta da parte del consumatore. Invece, analizzando le dinamiche si capisce che in questa crescita del prezzo incidono l’aumento degli affitti dei negozi, cresciuti tantissimo in questi anni di febbre immobiliare. L’aumento si è scaricato sui prezzi finali. Così arriviamo a quel +26%.
Il pane è sempre più caro, ma dalla sua ricerca risulta che anche tutti i beni alimentari non scherzano….
È così purtroppo. E anche in questo caso l’Italia è sopra la media europea. Ma c’è un altro dato che deve far riflettere e che restituisce l’esatta dinamica dell’inflazione in Italia. I prezzi dei beni ad alta frequenza d’acquisto crescono molto di più di quelli a bassa frequenza. E siccome tra i primi sono evidentemente inclusi i beni alimentari e quelli più legati alle necessità quotidiane di una famiglia, si può capire questo paradosso: l’inflazione incide proporzionalmente di più sui settori più poveri della popolazione.
Com’è arrivato a certificare questo stato di fatto?
Incrociando indicatori di prezzi relativi con un database che raccoglie i risultati di tutte le ricerche sui consumi delle famiglie, divise per fasce di reddito. È così che emerge come il tasso d’inflazione abbia eroso soprattutto il portafoglio del “decile” più basso della popolazione in quanto a reddito: c’è una differenza di ben sette punti rispetto ai redditi alti in dieci anni.
Una sorta di povertà al quadrato?
Io sono restìo a usare la parola povertà. Perché oggi non siamo in una situazione alla Dickens, con mortalità infantile alle stelle o vita media bassa. In Italia non c’è la fame. Ma esplodono altri fenomeni di cui misureremo le conseguenze in un breve futuro: quello ad esempio dei junk foods, che è segno di un declino drammatico della qualità dell’alimentazione. Il crescere dell’obesità infantile è un primo segno. È un fenomeno che riguarda quei ceti schiacciati dai prezzi e più esposti alla “moda” di cibi low cost lanciati dalla grande industria alimentare. La qualità non è solo un vezzo. Dovrebbe essere un diritto. Ma oggi in Italia intere fette di popolazione non hanno più la libertà di scegliere cosa mangiare. Per questo più che di povertà preferisco parlare di una perdita di libertà del vivere civile.
Lei ha fatto coincidere quest’Italia schiacciata dall’inflazione con l’Italia a “classe zero”. Che cosa intende?
La “classe zero” è quella categoria che oggi corrisponde al 20,4% dell’occupazione nel nostro Paese. Sono quelli a “zero dipendenti”. Gli ultrapiccoli, come quei camionisti che nelle settimane scorse abbia visto bloccare le strade, esasperati da liberalizzazioni e aumento dei carburanti. Non c’è un altro Paese europeo con una struttura del mondo del lavoro così. I grandi sono sotto il 10%. È un fattore di grande fragilità, perché esposti alla concorrenza senza frontiere, con pochi margini di guadagno, costretti a ritmi di lavoro infernali, spesso anche contravvenendo alle regole. Dobbiamo capire che questo è un nodo decisivo da affrontare se si guarda al futuro.
In che modo?
Probabilmente l’Italia più che di liberalizzazioni avrebbe avuto bisogno di una politica che stimolasse la crescita delle micro imprese fino al livello medio e porre le condizioni per lo sviluppo e il consolidamento di alcune nuove attività produttive ? in particolare dall’estero ? o esistenti. Lo strumento per fare questo è evidentemente uno strumento finanziario che oggi manca in Italia: uno strumento finalizzato alla crescita economica delle piccole imprese, selezionando quelle a più alto potenziale. Se guardiamo ai numeri della “classe zero” capiamo che questo sarebbe uno strumento di crescita sociale che vale più di tante misure assistenzialistiche.
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