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Cambiare il carcere: almeno proviamoci
La società non ha ancora assunto appieno una responsabilità fondamentale per la sua crescita, per la sua stessa valorizzazione: non ha rivendicato il carcere!
Invio l’ultima lettera spedita da mio fratello, il quale desidera Che le sia data diffusione perché la conoscenza del pianeta carcere non sia limitata ai coinvolti, detenuti e familiari, o agli addetti ai lavori.
Giovanna Canavesi
La società non ha ancora assunto appieno una responsabilità fondamentale per la sua crescita, per la sua stessa valorizzazione: non ha rivendicato il carcere! Lo costruisce, lo modella in modo grezzo, perché grezza, violenta, è la considerazione che ha degli uomini e delle donne che vi sono rinchiusi. Non accusateci di voler essere i primi della classe se parliamo: desideriamo solo esserci! Vogliamo agire nell’assenza, vogliamo tenerci stretti i nostri legami, non pesare su di loro, dimostrare che siamo ancora in grado di rilanciare la speranza, anche in azzardo. È un peccato provarci? O più laidamente: è sbagliato? Per riuscire a far ciò dobbiamo continuare a credere che non esiste un destino inesorabile, dobbiamo porre sul tappeto i temi che per noi sono belli, fondamentali, necessari. Sentiamo parlare di nuovo regolamento penitenziario, di aumento delle ore di colloquio mensile e dei minuti delle telefonate, di legge 419, di trasferimento della competenza sanitaria nelle carceri dal ministero di Grazia e Giustizia a quello della Sanità. Sentiamo parlare della necessità di aumentare notevolmente il numero del personale civile, degli educatori, degli assistenti. Siamo in attesa di vedere, di verificare. Per adesso guardiamo ciò che c’è…
Un giorno – 24 ore, sette giorni – 168 ore: e in sette giorni c’è 1 sola ora di colloquio! Crediamo che nessuno possa negare l’impressione che crea il confronto tra questi numeri. Racchiudiamo tutto in quei 60 minuti: entri in quelle sale ed è già tempo di salutare con un “A presto”. Torni e ti senti esausto, felice e stanco, insomma un misto di emozioni. Le mogli, i genitori, ti mandano il loro amore in un pacco, il cui peso massimo è di 5 Kg e ci chiediamo spesso con quale logica vengono limitati a 4 i pacchi, anche quando il mese è composto da 5 settimane. Una telefonata avviene solo ogni 15 giorni e solo se nella settimana precedente non hai avuto colloqui; dura 6 minuti, 6 miseri minuti (pagati da noi, non si tema), in cui la voce delle figlie, delle mogli, dei genitori crea felicità, ma toglie il fiato per la tensione. «Stai bene, papà?», è la frase che apre nel cervello tante caselle che si intrecciano, si scontrano, si confondono. E già una voce estranea ti avvisa che devi salutare.
La sanità in carcere è un optional: tanti medicinali spesso mancano, ma in compenso se ne prescrivono molti, con conseguente uso. Le visite avvengono di fronte al personale militare, senza alcuna discrezione, e gli specialisti si vedono dopo giorni e giorni. Una volta trasferiti, la cartella personale vi segue, priva di radiografie e degli esiti delle analisi. Vi riempiono di antinfiammatori, antistaminici, sedativi, tranquillanti. Molti medici ancora si chiedono se sia giusto trasferire le competenze alle Asl: spaventa così tanto “provare”?
Attenzione alla riproposta del cosiddetto “carcere duro”, alla formazione di nuove sezioni Eiv (Elevato Indice di Vigilanza). Forse sarebbe il caso di spiegare alla gente che cosa vogliono dire queste cose. Il carcere duro, o regime governato dall’art.41 bis, nega la possibilità di cucinare, limita gli acquisti alimentari, limita il numero di capi di abbigliamento, nega ogni possibilità di lavoro, concede una sola ora di colloquio, con i vetri, al mese; niente telefonate… E se si telefona, la conversazione deve avvenire tra carcere e carcere, vale a dire che i familiari sono costretti a recarsi all’interno di un Istituto penitenziario vicino a casa ed utilizzare il telefono lì presente. Molti si rifiutano di sottoporre i propri cari a una simile vessazione e ci si spieghi come si può non capirli.
Fabio Canavesi, carcere di Palmi
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