Non profit

Cairo: i miei 20 anni spericolati a Kabul

Intervista al direttore dell'Ortopedic center della capitale afgana

di Paolo Manzo

All’inizio di ottobre, il 4 per la precisione, uscirà per la casa editrice Einaudi Mosaico afgano, un libro di Alberto Cairo che è soprattutto un «bilancio di 20 anni di Afghanistan» spiega al telefono da Kabul il fisioterapista della Croce Rossa Internazionale. Con Vita, Cairo accetta di ordinare i principali frammenti del suo “mosaico afgano”, anticipando i contenuti del libro, soprattutto per aiutarci a capire un’esistenza apparentemente «folle e vissuta pericolosamente» ma che per Alberto è «l’unica vita che avrei voluto vivere».
Vita: A Kabul lei è oramai di casa. Quando cade il ventesimo anno della sua presenza in Afghanistan?
Alberto Cairo: Il 28 agosto di quest’anno, sono partito nel 1990, dopo il Mondiale di Schillaci e con Gorbaciov alla presidenza dell’URSS.
Vita: Come mai ha scelto il paese che più di ogni altro ha sofferto guerre, civili e non, negli ultimi 20 anni?
Cairo: In realtà non l’ho scelto io l’Afghanistan. Ho dato la mia disponibilità alla Croce Rossa Internazionale ad andare da qualsiasi parte, tra le varie offerte che mi hanno fatto c’era Kabul e ho accettato. Il mio “planning” era di fare al massimo due anni e invece.
Vita: E invece ha scelto di restare. Perché?
Cairo: Perché il lavoro da fisioterapista e ortopedico è stato appassionante sin dal primo momento, e così sono rimasto un secondo anno.
Vita: Poi nel 1992 è iniziata la guerra civile. Non ha avuto paura?
Cairo: No, anzi volevo rimanere ancora qualche anno in più perché il lavoro era entusiasmante e all’epoca c’era bisogno più che mai di protesi e di un buon ortopedico. E alla fine la ICRC mi ha lasciato perché non trovava nessuno che mi rimpiazzasse, un fatto davvero inconsueto ma che mi ha consentito, per così dire, di “farla franca”.
Vita: Fortunato in un certo senso perché la Croce Rossa Internazionale fa un po’ come i Carabinieri, non lascia mai a lungo in uno stesso luogo i suoi uomini.
Cairo: È esattamente così ma dal 1993 in poi ho chiesto in modo ufficiale di restare e a Ginevra sono stati d’accordo. Adesso sono in una situazione particolare: resto fino a che dura il progetto Cri, spero per altri 20 anni. Di certo posso dire che oggi questa terra è diventata la mia casa.
Vita: Elenchiamo ai lettori di Vita le gioie e i dolori di 20 anni di Afghanistan. Cosa la fa più felice?
Cairo: La gioia è collegata col fatto di sentirti terribilmente utile, il lavoro che faccio mi dà la certezza di essere un punto di riferimento per la popolazione locale. Mi sento rinfrancato e ricompensato per quello che riesco a dare e a fare, anche nei momenti più duri. Quando un ragazzo arriva senza gambe, disperato, e tu lo aiuti insieme all’equipe e poi vai avanti dandogli una mano a trovare un lavoro… Questa è la primissima ragione che mi tiene ancorato qui. Sa, la vita sociale in Afghanistan è molta poca, viaggiare è difficile se non a volte impossibile, e dunque è proprio questa cosa di sentirci utili che tiene tutti noi operatori umanitari qui.
Vita: Cosa invece le dà più dolore?
Cairo: Vedere spesso cose brutte, bruttissime. Ieri per esempio è successa una cosa tremenda, un ragazzo di 25 anni ha avuto una discussione con suo cognato per un pezzo di terra dal valore irrisorio. Si sono picchiati e uno ha cavato tutti e due gli occhi e ha castrato l’altro. Ecco, quando assisto impotente a queste escalation di violenza – e ce ne sono tante glielo posso assicurare – mi chiedo “ma dove sono finito?”. Subito episodi del genere mi fanno venire d’istinto la voglia di andare via ma poi l’utilità che senti di dare ti fa dimenticare tutto. Anche queste brutalità.
Vita: Non hai mai paura per la tua incolumità fisica?
Cairo: L’attività della Croce Rossa è molto conosciuta, quando la gente ha problemi fisici, di salute, viene da noi, siamo un’istituzione riconosciuta e questo ci aiuta e ci protegge molto. Per carità cose terribili come i volontari uccisi la settimana scorsa possono succedere ogni giorno ma io mi sento molto protetto dalla ICRC e la consapevolzza di essere utile e di sapere che lo sanno, mi dà davvero molta sicurezza.
Vita: Quante persone ha curato in questi 20 anni di Afghanistan?
Cairo: Milioni di persone per le consultazioni mediche, oltre 100 mila i disabili cui abbiamo inserito protesi a braccia e gambe.
Vita: Dopo 20 anni di solito si fanno dei bilanci. Qual è il bilancio dell'”afghano” Cairo Alberto da Ceva?
Cairo: Dal punto di vista del lavoro è estremamente positivo. Se però guardo il Paese intorno è un po’ meno positivo perché le aspettative degli anni scorsi non sono state rispettate. Tutti ci si attendeva che il Paese decollasse, che si sviluppasse e invece non è accaduto.
Vita: Come mai a suo avviso?
Cairo: Fa paura la corruzione che c’è. È un vero e proprio sistema collaterale dominante. Molti dei dipendenti dei ministeri si fanno dare mance e bustarelle. La popolazione è rassegnata, la gente si è abituata, è diventato il modo di vivere e questo porta indietro e non avanti il Paese.
Vita: C’è una soluzione?
Cairo: Soluzioni non ne vedo perché non c’è uno spirito di moralizzazione, di senso civico delle persone che dicano: “adesso basta pensiamo a costruire il Paese”. Nonostante i milioni di dollari arrivati qui le persone continuano ad arrangiarsi, magari qualcuno diventa anche ricco, ma la corruzione impedisce il vero sviluppo collettivo.
Vita: Eppure la religione islamica, che nei casi di corruzione e furto prevede pene molto severe, è molto sentita in Afghanistan. Strano non agisce come deterrente contro il malaffare, non crede?
Cairo: L’Islam qui c’è da sempre eppure, negli ultimi 5 anni, il peggioramento sul fronte della corruzione è stato enorme. Vuol dire forse che non funziona neanche quella? Non lo so. Forse la causa è la netta separazione tra vita religiosa e vita privata, per cui, terminata la preghiera che impone onestà e trasparenza, è come se le persone non pensino più ai dettami religiosi ma ad “arrangiarsi” con mance e tangenti.
Vita: Tra 20 anni dove sogna di essere?
Cairo: È dura sa, tra 20 anni comincerò ad essere vecchietto, avrò 75 anni ? A ben pensarci però mi piacerebbe essere ancora qui e vedere questo Paese un po’ in piedi e non così malridotto come adesso.
Vita: Cosa le manca di più dell’Italia?
Cairo: La cucina, il cinema, le librerie, anche se ormai con Internet si compra tutto online, libri compresi. E poi mi manca la bellezza dell’Italia e per questo ci vengo sempre volentieri in vacanza, ma non per viverci. La mia vita oramai è qui.


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