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Business Europe: «Il traffico dei minerali del sangue? Non lasciamo sole le imprese»
Oggi il Parlamento europeo vota in plenaria la proposta di regolamentazione della Commissione UE sulla certificazione delle aziende europee che importano minerali della zone di conflitti. La Confederazione delle associazioni industriali europee (Business Europe) è favorevole ad un approccio volontario. A Vita.it, la direttrice delle relazioni internazionali, Luisa Santos, spiega il perché.
Perché Business Europe si oppone ad una normativa vincolante per le imprese?
La nostra posizione è che sia necessario un approccio analitico alla questione. Le imprese hanno sicuramente un ruolo da giocare nel miglioramento della situazione per far sì che ci si rifornisca da miniere “pulite”. Detto questo, questo compito non può spettare solamente delle imprese, anche la politica ed i cittadini hanno un ruolo. A livello europeo, sosteniamo l’approccio volontario per varie ragioni, ed è per questo che accogliamo positivamente la proposta della Commissione europea. Anche se va migliorata. A differenza degli Stati Uniti, dove esistono regolamenti vincolanti per specifiche regioni ed aree come quella dei Grandi Laghi africani, la legge europea non si riferisce ad aree specifiche ma a aree di conflitto e zone ad alto rischio. Questa definizione così ampia ci porta a chiedere indicazioni più chiare su quali siano le zone coinvolte. Altrimenti, persino con l’approccio volontario, sarebbe impossibile per le imprese capire come procedere ai controlli poiché è estremamente complesso determinare quali sono i luoghi a rischio e quali no. Inoltre ci sono già varie imprese soggette al Dodd-Frank Act, firmato da Obama nel luglio 2010 (he esige la rintracciabilità e la certificazione d’origine dei minerali per evitare di alimentare il mercato nelle zone di conflitto. Questo gruppo include le imprese quotate nella Borsa di New York, così come molte di quelle che operano con altre imprese statunitensi o sul mercato americano. In virtù di ciò, hanno già implementato la dovuta diligenza nelle operazioni di approvvigionamento e cercano di assicurarsi forniture da fonti responsabili. Si tratta in genere di grandi compagnie, per cui questo processo è più semplice rispetto alle piccole e medie imprese.
Ciò signifca che le piccole e medie imprese sarebbero svantaggiate da una legislazione vincolante?
Comparando il settore auto e quello dell’elettronica, ci rendiamo conto che hanno catene di approvvigionamento molto diverse, una legislazione più severa porterebbe ad una minore flessibilità nell’adattamento delle proprie catene di approvvigionamento e modelli di business alla nuova legislazione. Inoltre, ci sono già varie misure volontarie in varie settori perfettamente adatte allo scopo. L’adozione di misure volontarie assicura un più grande impegno da parte delle compagnie. E’ anche importante decidere quali prodotti includere nelle normative. Nel caso di grandi aziende, è possibile che siano già operativi dei sistemi ed è dunque per esse più facile negoziare con i fornitori, informandoli che la loro immagine sarebbe a rischio se le forniture non venissero accompagnate da informazioni accurate. Per le compagnie più piccole è più difficile controllare i propri fornitori e c’è meno potere di negoziazione. Ciò vale soprattutto per un estremo della catena di approvvigionamento. Questa è un’altra delle ragioni per cui siamo contrari ad una legislazione vincolante.
Non crede che approvando regolamenti vincolanti solo per fonderie e raffinerie, ciò danneggerà il mercato e le imprese europee finiranno per rifornirsi da fonderie e raffinerie asiatiche?
Pensiamo sia poco probabile che queste aziende non si riforniscano da tali fonderie. La mancanza di un regolamento vincolante per la parte finale della catena di approvvigionamento, non implica che non si riforniranno in maniera responsabile, poiché già lo fanno o provano a farlo. La questione dell’immagine è poi molto importante per le aziende, rivolgersi a fonderie certificate, assicura che ci si stia rifornendo responsabilmente. Capiamo però che una normativa obbligatoria è un ostacolo per i fornitori ed è per questo che preferiamo un approccio volontario per tutte le compagnie.
Alcune imprese hanno dichiarato ad organizzazioni della società civile di essere già sottoposte a regolamentazioni sociali, ambientali, etc e non intendono applicare anche normative volontarie. Non si rischia che le imprese semplicemente non applichino una legge che non è vincolante?
Le consultazioni con i nostri membri mostrano che molti di loro sono già impegnati nell’applicazione di schemi volontari, in particolare nel settore automobilistico e dell’elettronica. L’idea di avere una legislazione vincolante è a volte controproducente giacchè ciò che è imposto per legge e non dal mercato non è visto di buon occhio dalle aziende. Se tale regolamentazione fosse invece una richiesta del mercato con la possibilità di adattarla al proprio modello aziendale, sarebbe recepita più facilmente. La vera questione risiede nel contrasto tra un approccio dal basso e su propria iniziativa, e l’imposizione di una riforma dall’alto senza nessuna flessibilità. E questa differenza è sostanziale.
Si è calcolato che la dovuta diligenza costa alle imprese solo 13 500 dollari durante il primo anno, mentre la situazione in alcune delle comunità minerarie coinvolte è sempre più complessa a causa della tassazione illegale. Sarebbe troppo chiedere alle imprese di adottare una legislazione vincolante?
Non possono essere le imprese a risolvere questo tipo di problemi, bensì la politica. Noi sappiamo che applicare il Dodd-Frank Act costa un milione di dollari per un’azienda – una cifra consistente. Questa legge , inoltre, riguarda solo una piccola area geografica, se comparata con quella a cui si applica la legislazione europea. In molti casi, si tratta di grandi aziende che investono molto in quei paesi e sono inserite nelle comunità locali. A costo di ripetermi, hanno pertanto un’immagine da mantenere e non è nel loro interesse avere legami con le cause dell’instabilità o con lo sfruttamento dei minori. La legislazione, sia americana che europea, non considera la complessità delle imprese coinvolte, le quali hanno catene di approvvigionamento molto diverse. Uno dei motivi del successo dell’approccio dell’OCSE, che è volontario, è che permette flessibilità e mostra alle imprese quali passi compiere in determinate industrie. Quando ci si incammina in un iter legislativo, invece, ci sono sempre aspetti che vengono dimenticati, e si ha un approccio rigido che non tiene conto delle differenze tra diversi settori ed industrie.
Oltre all’appoccio volontario, che altri alterantive proponete?
Crediamo che un processo di armonizzazione sia cruciale e sosterremo l’approccio dell’OCSE affinchè sia quello più diffuso. C’è una concorrenza globale tra UE, USA, Cina, India e Giappone, ed il fatto che le imprese europee debbano affrontare costi maggiori è uno svantaggio. I cinesi stanno creando un loro sistema mentre il Giappone è ancora incerto a riguardo. Noi vogliamo un approccio ed una soluzione globale a questo problema, non può toccare solo alle imprese americane ed europee. Ed anche se alcuni tra i principali partner si unissero, c’è un limite a ciò che può fare il mondo imprenditoriale. Fattori militari e politici sono anch’essi molto importanti, così come l’illegalità e la corruzione sono problemi cruciali.
Traduzione di Evelina Urgolo
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