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Burundi: la parabola di Pierre Nkurunziza, da presidente a re

La popolazione è chiamata a esprimersi con un referendum per modificare la carta costituzionale e permettere al leader di candidarsi per la terza volta, allungare i mandati da 5 a 7 anni e governare almeno fino al 2034. Un voto controllato da polizia, esercito e brigate paramilitari il cui esito appare scontato

di Marco Marcocci

L’indovinello potrebbe essere questo. Chi è il presidente della repubblica docente universitario, amante del calcio, pastore evangelico, guida “eterna e suprema” del proprio popolo che sta per legittimare il suo ruolo di padre padrone del paese che presiede?

Facile! La risposta è Pierre Nkurunziza, il presidente del Burundi che, a meno di miracoli che difficilmente possono manifestarsi nei paesi più poveri del mondo, sarà presto legittimato a governare almeno fino al 2034.

Oggi, infatti, in Burundi cinque milioni di persone sono chiamate a votare per un discusso ed inopportuno referendum che potrebbe modificare la carta costituzionale, consolidando le caratteristiche dittatoriali del mandato del presidente.

L’esito del voto, a favore di Nkurunziza, appare scontato anche perché polizia ed esercito e le brigate paramilitari – frutto del movimento giovanile del partito al potere – vanno a caccia di potenziali elettori del no al referendum e minacciano pesantemente chi è intenzionata a non votare.

Le agenzie internazionali parlano di lunghe file ai seggi nella capitale Bujumbura e di un dispiegamento di un ingente apparato di sicurezza per timori di proteste dell'opposizione.

Non per niente nel 2015, quando Nkurunziza annunciò che si sarebbe ricandidato per il terzo mandato consecutivo (il limite previsto dalla costituzione è di due), il paese precipitò in una crisi politica e in una spirale di violenza che ha provocato centinaia di morti e decine di migliaia di sfollati.

Al potere dal 2005, il cinquantaquattrenne Pierre Nkurunziza, poliedrico presidente-dittatore, ha pensato bene di tenere fuori dai giochi gli osservatori internazionali che avrebbe potuto, forse, denunciare i brogli ed il clima di tensione instaurato.

Con il referendum si approveranno degli emendamenti costituzionali che porteranno ad aumentare la durata del mandato presidenziale da 5 a 7 anni, ad eliminare il limite di due mandati per il Capo dello Stato, ridurre il numero dei Vice-Presidenti della Repubblica da due a uno e ripristinare la figura del Primo Ministro.

La strada che ha portato al referendum di oggi è stata caratterizzata da numerose proteste e incidenti, l’ultimo dei quali il 12 maggio scorso, quando un commando di ribelli ha distrutto un villaggio nella provincia settentrionale di Cibitoke, al confine con la Repubblica Democratica del Congo. Il bilancio di quest’azione parla di oltre trenta morti ed un numero imprecisato di feriti.

Le autorità di Bujumbura hanno inquadrato l’episodio nel contesto del tradizionale conflitto tra Hutu e Tutsi nella regione dei Laghi, tuttavia altre fonti rivelano che si tratta dell’ennesimo strascico della protesta anti-governativa che si protrae ormai dal 2015, anno in cui fu tentato un golpe, e che, sinora, ha causato 1.200 morti e oltre 100.000 sfollati.

Intanto nessuno interviene in aiuto di una popolazione tra le più strapazzate al mondo, forse solamente perché il Burundi è troppo piccolo, anzi povero.

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