Welfare

burocrazia e bustarelle, non entrate nel Mugammah

Le interminabili attese all'Anagrafe del Cairo

di Redazione

Se vedi che le cose non vanno, recita
sette volte la Sura del Fatiha, e ripeti almeno cento volte «Allah Akbar».
È il ritornello che tutti ti suggeriscono prima di entrare. Ma non basta mai.
E allora non resterebbe che dare retta alle mie amiche: «Paga qualcuno,
non ti complicare la vita».
Ma io ho voluto fare di testa mia…di Rania Ibrahim
E dire che mia madre e le mie zie avevano, invano, cercato di persuadermi dal voler andare in Egitto da sola a scontrarmi con la burocrazia, sorda e alquanto frustrante, presente nella mia terra: la terra dei Faraoni, simbolo di efficienza.
Volevo preparare io stessa i documenti necessari per il mio matrimonio a Il Cairo, che poi, tornata a Milano, avrei utilizzato per l’acquisizione della cittadinanza italiana, come richiestomi in Prefettura. Le mie amiche cairote e le mie care cugine mi avevano dato suggerimenti del tipo: «Non vestirti in modo appariscente, sennò ti vorranno spillare più denaro, non perdere tempo, prepara un bel po’ di soldi, di diversi tagli, e “rosciy”, annaffia! (gergo-slang egiziano), ma soprattutto prega tanto? quando vedi che le cose non vanno, recita sette volte la Sura del Fatiha, e ripeti almeno cento volte «Allah Akbar» di fronte al tuo interlocutore! Vedrai che andrà tutto bene, e ti si apriranno tutte le porte!».

La legge della rashwa
Caspita! Hai voglia a pregare, neppure tutte le Sur” del mio prezioso e amato Corano mi avrebbero salvata! La porta in questione avrei dovuto prenderla a calci, buttarla giù con una bomba a mano o meglio ancora tirarla giù a testate come fa un ariete nella stagione degli amori; ogni qualvolta uscivo da uno degli uffici in lacrime, o scendevo per strada imprecando in tutte le lingue, presa da uno sconforto tale da voler abbandonare tutto e salire sul primo volo per l’Italia. Come al solito, mi opponevo a qualche cosa. Questa volta la mia battaglia personale era rivolta ad un sistema ed ad un popolo che oramai aveva così tanto assorbito questa repellente pratica, così radicalizzata e diffusa, presente, secondo me, nel sangue o addirittura nel dna degli egiziani di oggi: la “rashwa”. «Paga qualcuno, non ti complicare la vita», mi ripetevano le mie amiche, certo non per mia tirchieria, ma solo perché non volevo arrendermi, volevo fare tutto senza per forza alimentare la già fin troppo avvilente e pessima usanza del bakshish, sempre ed ovunque.

A due passi dal Museo
Teatro delle mie pene è stato, per qualche giorno, il famigerato Mugammah del Tahreer Square, un complesso enorme a pochi metri dal Museo egizio del Cairo, il centro di tutti gli uffici. Tutti prima o poi nella loro vita, almeno una volta, ci devono andare. È una sorta di anagrafe tributaria, officina di certificati di ogni genere ed utilità, dove è facilmente respirabile aria di burocrazia e ingiustizie a 360°. Il tutto materializzato in un unico edificio: miliardi e miliardi di carte e faldoni, pieni di polvere, rosicchiati dai topi, utilizzati per fermare porte, o per appoggiare tazze di tè degli efficientissimi e mal pagati impiegati, che già la mattina presto non hanno voglia di fare niente, e quella poca rimastagli la utilizzano quotidianamente per quello che secondo me è il loro vero obiettivo: procurare stress e infarti ai propri connazionali.

Jeans e t-shirt
Vestita all’occidentale, con jeans e t-shirt, profumatissima, pulitissima, tutta in ghingheri, salivo le scale, sudice e affollate, e in pochi metri avevo l’opportunità di respirare una miriade di “essenze e fragranze” di sudore, mai sentite prima. Si potevano incontrare donne velate sudate che gocciolavano, uomini con sandali e piedi zozzi che non facevano altro che “penetrarti” con lo sguardo, persino la mia ascella depilata diventava una zona osé sulla quale fantasticare. Ho incontrato persino una famigliola seduta sulle scale a mangiare panini di formaggio e “basterma”(carne secca), nell’attesa che i loro documenti fossero pronti, ma soprattutto ho incrociato molti gatti. Purtroppo, il micio del Mugammah non è proprio quello che si vede nelle cartoline d’auguri: c’erano gatti senza un occhio, zoppi e addirittura con il pelo rovinato dalle zecche o da chissà quale altra malattia, che solo a vederli avrei voluto avere una flebo di antibiotico attaccata al braccio. Mi sono sentita diverse volte come il famoso attore egiziano Adel Imam, che recitò Al irhab wal kabab (Terrorismo e Kebab), un film che nel 1993 denunciò in modo divertente ed irruento la situazione frustrante e assurda di questo complesso, ma soprattutto dell’impenetrabile ed inefficiente burocrazia egiziana.

Partecipa alla due giorni per i 30 anni di VITA

Cara lettrice, caro lettore: il 25 e 26 ottobre alla Fabbrica del Vapore di Milano, VITA festeggerà i suoi primi 30 anni con il titolo “E noi come vivremo?”. Un evento aperto a tutti, non per celebrare l’anniversario, ma per tracciare insieme a voi e ai tanti amici che parteciperanno nuovi futuri possibili.