E’ stata una rivoluzione silenziosa. Una rivoluzione di cui sono stata una testimone diretta – un privilegio – e che a mio avviso è un esempio a cui l’Africa e la Comunità internazionale dovrebbero ispirarsi se si vuole che la democrazia e i diritti umani possano un giorno trionfare su tutto il continente africano. Questa rivoluzione è quella di milioni di uomini e donne che hanno espresso in modo pacifico, prima nelle strade, e poi attraverso le urne la loro strenua volontà a cambiare pacificamente con la democrazia il destino di un paese – il Burkina Faso – in cui lo Stato di diritto è stato calpestato per quasi un trentennio.
L’8 febbraio sono tornata per la terza volta in questo paese situato nel cuore dell’Africa occidentale per presentare il Rapporto finale della Missione di osservazione elettorale dell’Unione Europea che ho guidato dal 5 settembre al 29 dicembre 2015, e che ha accompagnato il Burkina Faso alle prime elezioni democratiche dall’avvento dell’ex Presidente Blaise Compaoré al potere nel 1987. La consegna di questa relazione nelle mani del nuovo Primo ministro Burkinabè, Paul Kaba Thiéba, è stato carico di emozioni. Entrambi sapevamo che le elezioni presidenziali e legislative del novembre scorso sono state il risultato di un autentico miracolo politico e istituzionale.
Per capire la portata di questa rivoluzione democratica è necessario risalire al 2012, quando Compaoré decise di modificare la Costituzione per mantenersi al potere. Con le immagini della “Primavera araba” in testa, decine di migliaia di Burkinabè, soprattutto giovani, dissero no al referendum costituzionale voluto dallo stesso Compaoré, fino a precipitarne la caduta nell’ottobre 2014 e avviare una transizione politica appoggiata sin dai suoi primi passi dall’Unione Europea. E questo appoggio non è mai venuto a mancare, anche nel periodo più difficile della transizione, quando il 16 settembre 2015 un golpe militare (poi fallito) rischiò di far precipitare il Burkina in un clima di guerra civile. A salvare il paese furono innanzitutto gli i cittadini Burkinabè che pagarono con il sangue la difesa di una democrazia ancora fragile, ma anche i leader politici e militari più saggi, consci che, in una regione come il Sahel afflitta dalla povertà e dalla minaccia terroristica, l’era dei colpi di Stato dovesse rimanere un ricordo del passato. Questo periodo coincise con la mia prima missione in Burkina come Capo della Missione di osservazione elettorale dell’UE. E ricordo molto bene quanto la presenza della nostra missione durante il golpe militare abbia largamente contribuito a rafforzarne la credibilità e la legittimità presso gli attori politici e la società civile Burkinabè. Nel corso di questa mia prima visita agli inizi di ottobre 2015, la tensione era altissima. Furono mesi determinanti in cui le autorità transitorie presero decisioni importanti per il futuro del paese. Costruire una democrazia è una cosa che non si improvvisa, e spesso si gioca sui dettagli. Come quando il Presidente di transizione, Michel Kafando, decise di sciogliere l’unità di élite dell’ex regime e di fissare il più rapidamente possibile, su suggerimento della Missione europea, una nuova data elettorale per non dare spazio alle speculazioni; oppure quando il Procuratore generale di Ouagadougou, la capitale, ordinò il congelamento degli averi delle personalità che avevano sostenuto direttamente o indirettamente il putsch militare, tagliando de facto le gambe a quei partiti che avrebbero destabilizzato la campagna elettorale.
Le elezioni del 29 novembre ha costituito la tappa più importante del processo di transizione, con la vittoria di Roch Marc Kaboré alle presidenziali. Più di 5,5 milioni di burkinabè si sono recati alle urne per eleggere il Presidente del Burkina Faso, oltre a 127 deputati. Le operazioni di apertura del voto, della sua chiusura e dello spoglio dei risultati negli oltre 17mila seggi sparsi in tutte e 13 le regioni del Burkina, 44 province su 45 e quasi la metà dei comuni, si sono svolte in un clima pacifico sotto la supervisione di 876 osservatori internazionali (di cui 124 europei) e 16mila nazionali. Sono cifre da capogiro per un Paese che risulta tra i più poveri dell’Africa sub-sahariana. Malgrado le difficoltà logistiche, la sfida – possiamo dirlo – è stata vinta. Certo, durante il mio quarto e ultimo soggiorno in Burkina Faso per presentare la relazione finale della mia missione, ho ricordato alle autorità locali quanta strada rimane ancora da percorrere, a partire dalla necessità di rafforzare la presenza femminile nella vita politica nazionale. Sui 127 deputati appena eletti, si contano soltanto 12 donne, poco meno del 10% dell’intero emiciclo, mentre in Rwanda la percentuale di seggi occupati da donne negli organi legislativi supera il 60%. Ci sono poi due altre sfide, strettamente legate fra loro, che il Burkina Faso dovrà raccogliere: la lotta contro la povertà e il terrorismo islamico. Nonostante un tasso di crescita del 7% annunciato dal Fondo monetario internazionale per il 2016, il tasso di povertà rimane altissimo (oltre il 55% secondo la Banca Mondiale), special modo tra i giovani, che sono poi i più esposti alla propaganda jihadista in Sahel. Gli attacchi terroristici perpetrati il 15 gennaio scorso all’Hotel Splendid e il Caffè Cappuccino, dove hanno perso la vita, tra gli altri, il figlio del ristoratore italiano del Cappuccino Gaetano Santomenna, il piccolo Misha e la moglie Victoria, sono stati un chiaro attacco alla giovane democrazia Burkinabé. Per questo, nel mio ultimo soggiorno a Ouagadougou ho voluto esprimere la mia personale vicinanza al popolo del Burkina Faso e alle sue autorità, raccogliendomi in questi luoghi teatro della tragedia, luoghi della vita quotidiana delle persone e della città, dove io stessa sono stata più volte durante la Missione di osservazione elettorale dell’Unione Europea.
Oggi la Comunità internazionale non può e non deve abbandondare il Burkina. Dalla sua stabilità politica dipende il futuro di un’intera regione il cui sviluppo è messo a rischio da una povertà cronica e, in certi casi, da una cattiva gestione dello Stato che, in questi ultimi anni, ha favorito la proliferazione di traffici umani, di armi e di droga, finendo per arricchire le casse di gruppi estremisti come Al Qaeda nel Maghreb islamico. La storia recente del Burkina Faso è una “una storia di successo” che, contrariamente a quanto sta accadendo in altri paesi africani (vedi il Burundi), ci dimostra che i leader africani non possono più ignorare “una primavera africana” come quella Burkinabè.
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