Non profit

Buon appetito, l’hamburger sintetico è quasi pronto

Potrebbe essere commestibile già dal 2012

di Marco Dotti

I tecnici dei laboratori olandesi di Eindhoven hanno ottenuto la prima carne arficiale derivandola da cellule di maiale e calamitando i finanziamenti della InVitro Meat Foundation. E anche in Italia l’interesse cresce Un’alternativa-shock o, banalmente, l’annuncio di una nuova – l’ennesima – frontiera nella ricerca sugli ogm? Una soluzione concreta ai problemi dell’alimentazione e dell’inquinamento da produzione bovina che da tempo preoccupano la Fao e altre organizzazioni di settore o un’ulteriore forma di sfruttamento, anche simbolico, della vita animale? Difficile capire, ma altrettanto difficile non prendere posizione se in gioco ci sono questioni economiche, ambientali e soprattutto etiche di non poco conto, tornate alla ribalta dopo l’annuncio di un gruppo di ricercatori olandesi che, nei laboratori di biotecnologia dell’Università di Eindhoven, hanno ottenuto una bistecca di carne sintetica “derivandola” da alcune cellule di maiale.

Saporita, sana e a basso costo
I risultati, arrivati alla fine del 2009 e pubblicati sulla rivista Trends in Food Science & Technology (vol. 21, n. 2, 2010), erano attesi da tempo e hanno rapidamente catalizzato l’attenzione e i fondi della InVitro Meat Foundation, uno degli istituti formalmente non profit che, nel cuore della vecchia Europa, mirano a finanziare ricerche volte a sondare la possibilità di sostituire la carne tradizionale, definita in linguaggio tecnico “carne convenzionale” (la cosiddetta “conventional meat”) con quella da coltura sintetica (la cosiddetta “cultured meat”). La carne in vitro, per ora, non è commestibile, anche se le previsioni più ottimistiche prevedono lo diventi entro il 2012, mentre quelle più caute si arrischiano su un periodo di cinque-dieci anni.
Dalla brochure illustrativa della Fondazione InVitro Meat si apprende che la stessa è composta di «persone con l’ambizione di rendere la carne coltivata pronta per il mercato» («people with a passion for getting cultured meat ready for the market») e per questo la fondazione ha, tra le altre cose, una non meglio definita rete di relazioni preferenziali con il «governo olandese, società commerciali e istituzioni scientifiche». La carne, sempre secondo i propositi della InVitro, dovrebbe essere «saporita, sana e a basso costo» e i consumatori dovranno a tal fine essere «pienamente fiduciosi della carne che mettono in bocca». La carne coltivata è prodotta da coltura cellulare: una prima fase della “coltivazione” consiste nel prelevare un certo numero di cellule da un animale per lasciarle proliferare in un ambiente ricco di nutrimento; successivamente, quando si sono moltiplicate, le cellule vengono applicate su una struttura simile a una spugna e immerse in sostanze da cui traggono nutrimento. Le cellule così ottenute possono quindi essere raccolte, insaporite, cucinate e consumate come «preparati di carne senz’osso, ad esempio salsicce, hamburger e crocchette di pollo».

Veronesi dixit
Basandosi su dati a suo tempo divulgati e resi noti al grande pubblico dal bestseller di Jeremy Rifkin, Ecocidio (Mondadori, 2001), la InVitro Meat ritiene, al pari di organizzazioni consimili, che la riduzione delle superfici coltivate a cereali (a tutt’oggi, i 2/3 dei terreni coltivati sono adibiti a produzione di cereali per l’allevamento), la riduzione delle emissioni di gas serra come previsto dal protocollo di Kyoto, un miglioramento delle condizioni di “produzione” della carne possano, da un lato prevenire l’insorgere e il diffondersi di patologie e infezioni come la salmonella o l’encefalopatia spungiforme (morbo della “mucca pazza”), dall’altro indurre a una diversa qualità della vita orientando il consumo verso fonti “alternative” di proteine. È proprio su queste “fonti alternative” che le opinioni divergono.
Se nel 1992 Rifkin sosteneva la necessità di andare oltre una “cultura della carne” (non a caso, il titolo originale del suo volume è Beyond beef, con un ovvio riferimento all’iperconsumo statunitense di carne bovina), il 21 luglio 2008, sulle pagine di Repubblica, il professor Umberto Veronesi pubblicava un articolo sostenendo che «la bistecca in vitro non deve scandalizzare né gli scienziati né i buongustai», anzi «risponde al dovere morale della scienza di trovare soluzioni al più urgente problema del pianeta: come procurare acqua e alimenti per tutti i suoi abitanti e come riparare la terribile ingiustizia alimentare che fa sì che milioni di persone muoiono di fame da una parte del mondo, e milioni si ammalano per troppo cibo dall´altra».
Le parole di Veronesi riecheggiano oggi nel progetto di un’altra fondazione, la New Harvest, che, operante anche in Italia, nel suo comitato scientifico ospita una figura di primo piano della ricerca sui cibi alternativi: Henk Haagsman.
Haagsman proviene dal dipartimento di “Meat Science” dell’università di Utrecht, è direttore di ricerche e autore di saggi sulle alternative al consumo di proteine animali, e di recente è balzato agli onori delle cronache anche per una presa di posizione in favore del premio da un milione di dollari istituito da Peta – People for Ethical Treatment of Animals, un’associazione animalista che conta più di due milioni di iscritti nel mondo. Il premio, da assegnare al primo centro di ricerca che «riuscirà a rendere commestibile la carne in vitro», è giunto inaspettato e ha provocato scissioni interne e spaccature di non poco all’interno dell’universo ambientalista, tanto che uno dei fondatori della Peta, Ingrid Newkirk, ha rivelato che la decisione ha già dato il via a «una guerra civile nei nostri uffici».

Tessuto amorfo
La carne in vitro, ottenuta nel laboratorio di Eindhoven, benché non ancora commestibile, qualora il progetto andasse realmente in porto rivelerebbe comunque già alcune caratteristiche della “carne futura”. Una carne che, a detta dei ricercatori più scettici, ha sì ben poco di animale – essendo derivata da cellule di animali vivi – ma assomiglia più a un tessuto amorfo da modellare con estrogeni e additivi, simile alla soja che già “arricchisce” gli hamburger di una nota catena di fast food. Per la gioia, forse, di chi in quegli estrogeni e in quegli additivi vede un business di portata davvero globale.

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