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Brovary e quel ponte di pace con le università italiane

A Brovary, nell’Oblast di Kiev, grazie alla collaborazione tra la società civile italiana e quella ucraina è nato il primo “Peace Village”. Una struttura di 300 metri quadrati. Alla realizzazione hanno collaborato tante aziende italiane e anche due università: quella degli Studi del Sannio e il Politecnico di Milano

di Anna Spena

Ci siamo abituati alle immagini satellitari dell’Ucraina vista dall’alto fatta di città e villaggi rasi al suolo. Alle immagini di palazzi spaccati in due, di case – spesso costruite con i risparmi di una vita messi da parte con anni di lavoro lontano dall’Ucraina – che oggi sono devastate. Case che per chi le abitava erano il racconto di una cura quotidiana, un progetto di costruzione. Poi invece la guerra ha portato solo alla distruzione.

A Brovary, nell’Oblast di Kiev, è nato il primo Peace Village. Un progetto replicabile nelle zone di guerra e nelle zone di confine con l’obiettivo di creare punti di ristoro climatico e di calda convivenza per la popolazione civile ucraina. Brovary dista 25 km dalla capitale, Kiev. È un comune di 100mila abitanti, a poco più di un’ora e mezza di macchina dalla città di Chernihiv, nell’Ucraina settentrionale. Una città vicinissima alla Bielorussia, prima dell’inizio della guerra ci vivevano quasi 300mila persone. Per arrivare a Kiev i russi avrebbero dovuto conquistare Chernihiv, così l’hanno bombardata. La metà degli abitanti è fuggita, e in molti hanno trovato rifugio a Brovary, che pure nei primi mesi della guerra non è rimasta illesa. Il Peace Village non ha una geometria qualsiasi. La mano che ne ha tracciato la forma non è una mano qualunque, ma quella dell’architetto italiano di fama internazionale Mario Cucinella. Tre strutture di 100 mq collegate al centro. Tre strutture che legate così insieme restituiscono un’immagine precisa: il segno della pace.

Non è solo una casa, non è solo una struttura riscaldata, non è solo un luogo per la comunità. È la solidarietà che diventa concreta, che si può toccare. Il Peace Village è un messaggio di nonviolenza nato da un’idea del Mean – Movimento europeo di pace non violenta. Un gesto che ha dimostrato che si può fare di più. E "più" in questo caso ha significato quattro tir carichi di materiale per montare il villaggio. “Di più” ha significato anche eccellenza nei materiali utilizzati. Un villaggio che è nato dalla capacità di “mettersi in ascolto” della società civile ucraina, di conoscersi, parlarsi, guardarsi. Abbiamo raccontato l’inaugurazione del villaggio qui Quel pane fragile e potente della nonviolenza a Brovary e qui La pace possibile in 9 ritratti.


Fondamentale, nella realizzazione del villaggio, il ruolo di due università italiane: l’Università degli Studi del Sannio e il Politecnico di Milano. «Ero nel gruppo di attivisti italiani che è andato in Ucraina per l’inaugurazione del Peace Village», racconta Maurizio Sasso, professore di tecnologia delle fonti rinnovabili ed energetica applicata ai corsi di studio di ingegneria energetica dell'Università del Sannio. «Abbiamo visto ospedali pediatrici, trincee, città martiri, luoghi devastati, cimiteri pieni di lapidi di giovani ragazzi morti in guerra».

Quando è nata l’idea del Peace Village gli attivisti del Mean si sono rivolti al professor Sasso: “Quali sistemi possono garantire approvvigionamento energetico al Peace Village?”. «Eravamo davanti», racconta Sasso, «a esigenze e criticità specifiche, tra cui quella di lavorare in un’area di conflitto quindi con risorse limitate. Siamo partiti da simulazioni con dei software prendendo in considerazione le condizioni meteorologiche, le caratteristiche dell’involucro, i carichi di richiesta termica. La soluzione migliore, alla fine dei nostri studi, è stata quella di dotare le tre strutture di stufe a pellet, di cui una donata dall’azienda beneventana Pasqualicchio, materiale disponibile in loco, e di generatori. Quando l’energia elettrica è disponibile si usa quella, quando manca il bisogno viene coperto dalle stufe».

Il professor Sasso è stato accompagnato nei mesi di ricerca da Gerardo Maria Mauro, professore di fisica tecnica industriale. Il villaggio è stato realizzato su una struttura di cemento messa a disposizione dall’amministrazione locale di Brovary, un luogo comunitario e di comunità che rimarrà anche dopo la fine del conflitto. A montarlo di operai locali guidati dall’ingegnere edile di Donetsk, Sasha Shisnyak, che ha coordinato la squadra.

Le strutture sono formate a freddo in acciaio zincato, e sono state donate dall’azienda ScaffSystem. L’involucro della struttura è stato fornito da Manni Group, azienda leader nella realizzazione di pannelli sandwich strutturali isolanti.

«Avevamo bisogno di una struttura solida», spiega Marco Imperadori, professore di progettazione e innovazione tecnologica al Politecnico di Milano, «che allo stesso tempo fosso facile da trasportare e montare. Abbiamo optato per il Mechano Steel Frame, un progetto risultato vincitore dell’Adi Design Index 2021 (Adi-Associazione disegno industriale) pensato con Licio Tamborrino per ScaffSystem, un sistema costruttivo a secco per progetti di edilizia residenziale, sociale e pubblica. Soluzioni strutturali in acciaio e sistemi di involucro edilizio, integrandosi, danno vita a un sistema prodotto sostenibile di ridotto spreco di risorse e di ampia flessibilità architettonica».

«A seguire il progetto con me», continua Imperadori, «la dottoranda Graziana Marrone, e poi, nel periodo di gestazione, avevo tre tesisti: Martina Maffioletti, Leonardo Valenti notti e Marco Garavaglia».

È stato l’architetto Mario Cucinella a coinvolgere il professor Imperadori: «È arrivata questa richiesta e da lì abbiamo deciso subito di aderire: la necessità era impellente. Ognuno aiuta come può, e da dove può, questa piccola costruzione è anche un segno, un simbolo di come la pace vada costruita. E non è un caso che davanti alla distruzione della guerra sia chiamato in causa il linguaggio dell'architettura, che è proprio una forma di pensiero costruttivo davanti alla guerra».

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