Non profit

Brocca contro minerale Se il business è potabile

Tutti i numeri dell'oro blu in Italia

di Maurizio Regosa

I fatturati di colossi come Acea ed Hera crescono.
Ma gli investimenti sulle infrastrutture restano al palo. E mentre per le tariffe tutti danno per scontato
un ritocco all’insù,
si apre un nuovo fronte
di concorrenza:
quello tra gli acquedotti
e le acque in bottiglia
L’acqua per i più fortunati è da bere ma ad alcuni dà anche da mangiare. Giacché l’oro blu è anche un affare. Sul quale si sono fiondati in molti, multi o mono-utilities nostrane e multinazionali (come le francesi Veolia, Gdf Suez). Con risultati, specie al Centro-Nord, da crescendo rossiniani.

L’oro blu
Acea spa, per esempio (multiutility controllata al 51% dal Comune di Roma; fra gli azionisti, Caltagirone, Gdf Suez). Nel 2006 ha fatturato 666 milioni di metri cubi d’acqua. Saliti a 767 nel 2008 (nei primi sei mesi 2009, i milioni sono stati 386). Quanto ai ricavi (complessivi) dai 1.600 milioni del 2005 la società (quotata in Borsa) è balzata ai 3.144 del 2008 attraverso un susseguirsi di segni più. Come è successo al gruppo Hera (nel cui azionariato oltre 180 enti locali fra cui i Comuni di Bologna, Modena e Ferrara, che detengono il 59%). Il suo margine operativo lordo relativamente al ciclo idrico integrato è passato dagli 86,5 milioni del 2007 ai 94,9 milioni del 2008 (ed è quasi a 60 milioni nel primo semestre 2009). Con ricavi (complessivi) che hanno seguito il ritmo: i 1.956 milioni del 2007 sono diventati 2.556,5 milioni nel 2008 (più 30,7%). Ottimi risultati anche per il Gruppo Acque potabili (altra spa pubblico-privato che opera in Piemonte e in Sicilia): ha registrato ricavi per 39,7 milioni (+11,9% rispetto al 2008).

Tariffe troppo basse?
Quel che forse più conta per il consumatore sono le tariffe. Che aumenteranno. Lo annuncia a chiare lettere il Blue Book 2009 di Utilitatis (l’associazione delle utilities). Così non si può andare avanti, sostiene: sono troppo basse per fare investimenti. A Roma, per esempio, Acea fa pagare 177 euro per 200 metri cubi di acqua. Molto al di sotto delle altre capitali europei. E se va meno bene a chi vive ad Agrigento o ad Arezzo (dove spende rispettivamente 440 e 410 euro l’anno), a Milano si pagano in media 103 euro. Da qui la previsione di una crescita: dagli attuali 1,29 euro al metro cubo si passerà a 1,57 euro entro il 2020. Aumenti che dovrebbero servire alle infrastrutture. Nei prossimi trent’anni sono necessari investimenti da oltre 63 miliardi (ora al 15% degli italiani mancano le fognature, al 30% i depuratori, mentre la dispersione degli acquedotti nel Meridione arriva al 49%).

Risorse da bere?
Il nodo però è negli investimenti. Spesso annunciati e poi messi da parte. Lo ricorda una recente ricerca della Bocconi: «In tutti i casi in cui è avvenuta una revisione del piano iniziale, sono stati previsti costi operativi maggiori, investimenti inferiori e tariffe maggiori». E ancora: «Nei 42 Ato esaminati a fronte di 4,4 miliardi di investimenti previsti nei primi anni, solo 2,1 miliardi sono stati effettivamente realizzati». Una conclusione cui giunge anche Nomisma: «Il 70% delle imprese ha dichiarato che la differenza tra gli investimenti effettuati e programmati si aggira tra il 50 e l’80%». Come mai? Per la difficoltà di avere finanziamenti ma soprattutto per i rapporti non semplici con gli enti locali. Che sono soci delle società di gestione, affidano il servizio e devono controllarlo. Non a caso Giancarlo Cremonesi, presidente di Acea, saluta il decreto Ronchi come una «occasione per garantire una costante e maggiore qualità nei servizi» e contemporaneamente auspica che si «preveda una specifica authority con poteri reali di regolamentazione».

Giochi trasparenti
Chissà. Forse con una authority ciascuno avrebbe il suo ruolo. E la situazione diventerebbe più trasparente. Non ci sarebbero rimpalli di responsabilità per quanto riguarda gli aumenti al consumo (che, sottolinea Cremonesi, «sono stabiliti dalla Conferenza dei sindaci presenti nei singoli Ato»). Aumenti che, tra l’altro, qualcuno vede legati a un altro fronte del business dell’oro blu, quello della concorrenza tra acqua del rubinetto e acque in bottiglia (con molti gestori che hanno realizzato campagne pubblicitarie ad hoc). «Una concorrenza», sottolinea Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua (raccoglie i produttori di acque minerali, di cui l’Italia è il primo consumatore al mondo) che «si basa su un’assimilazione impropria, ma che potrebbe però servire a giustificare i possibili aumenti da parte degli enti gestori».


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