Dopo Hillary Clinton, anche Michelle Obama, ha appoggiato la campagna #BringBackourgirls, unendosi al coro di voci globale che, da due settimane, chiede la liberazione delle oltre duecento studentesse, rapite lo scorso 14 aprile nella scuola secondaria statale di Chibok, nel nord-est della Nigeria, dal gruppo di estremisti islamici Boko Haram.
“Le nostre preghiere vanno alle ragazze scomparse e alle loro famiglie, è tempo di riportare a casa l e nostre ragazze”.
Firmato con le iniziali M.O. segno che il tweet provenga proprio dalla first lady e non dallo staff, il semplice messaggio di Michelle Obama, è servito da volano alla campagna social globale ed è segno del fatto che finalmente anche gli occhi del mondo occidentale sono puntati sulla Nigeria e su questa gravissima vicenda.
Il rapimento delle ragazze, tutte studentesse tra i 16 e i 18 anni, è avvenuto lo stesso giorno dell’attentato di Abuja, anch’esso ricondotto al gruppo terroristico Boko Haram, dove l’esplosione di una bomba ha ucciso 75 persone. Un altro attacco due settimane dopo, nella stessa zona, ha ucciso altre 19 persone e ne ha ferite 34. Il gruppo armato Boko Haram, il cui significato in italiano potrebbe essere tradotto con “l’educazione occidentale è un peccato”, si oppone all’occidentalizzazione del Paese e ha come obiettivo l’imposizione della sharia.
Il rapimento di massa delle studentesse è l’ennesimo atto di violenza dell’organizzazione che, dalla fondazione nel 2002, si ritiene sia stata responsabile della morte di circa 10 mila persone. Il 16 marzo scorso sono stati cento i civili ammazzati durante gli attacchi armati nei villaggi della zona. Secondo fonti locali, a differenza della maggior parte delle scuole del Paese, rimaste chiuse proprio per paura di ripercussioni da parte dei terroristi, contrari in particolare all’istruzione femminile, la scuola di Chibok era rimasta aperta per permettere alle ragazze di sostenere gli esami di fine anno. Questa settimana il leader terrorista Abubakar Shekau ha rivendicato il rapimento, minacciando di vendere le ragazze come schiave per 12 dollari ciascuna.
Da settimane le famiglie delle studentesse hanno lanciato l’allarme, scendendo in piazza per chiederne la liberazione e organizzando gruppi di ricerca autonomi, lamentando l’indifferenza del governo.
Il
presidente nigeriano,
Goodluck Jonathan, ha infatti parlato pubblicamente dell’accaduto, dichiarando l’impegno delle autorità per la ricerca delle ragazze, solo domenica scorsa, due settimane dopo il rapimento. Secondo l’
autrice nigeriana
Chibundu Onuzo, è stata proprio l’attenzione internazionale montata sul caso, anche grazie alla campagna social, a costringere il presidente ad attivarsi per la liberazione, “è incredibile come l’atteggiamento possa cambiare quando si hanno puntati su di sé gli occhi della comunità internazionale”, ha scritto Onuzo sulle
pagine del Guardian, “Questa settimana abbiamo scoperto il potere dell’hashtag.
#Bringbackourgirls, riportate a casa le nostre ragazze, ha unito in una richiesta semplice e diretta, casalinghe nigeriane e Hillary Clinton.” Usato per la prima volta il 23 aprile scorso, durante la cerimonia di apertura dell’evento
UNESCO per la
World Book Capital City 2014, nella città di Port Harcourt, in Nigeria, l’
hashtag è stato velocemente adottato come simbolo della richiesta di liberazione. Dalle strade di Abuja, le
manifestazioni di protesta e
solidarietà per le studentesse sono arrivate fino a
Londra, Los Angeles e New York. Questa settimana sia
Barack Obama che
David Cameron hanno dichiarato l’intenzione di offrire un appoggio strategico alle
autorità locali per coordinare le operazioni di
ricerca e
liberazione delle ragazze.
Sia
Change.org che
Amnesty International hanno lanciato una petizione online per chiedere alle
autorità nigeriane di fare tutto il possibile per il rilascio degli ostaggi e per garantire che l’istruzione ai minori sia garantita senza discriminazioni.
L’attenzione accesa sulla Nigeria dalla campagna per la liberazione delle ragazze è anche un occasione per spingere ad una riflessione più profonda sulle condizioni delle milioni di persone che vivono nel Paese. “Abbiamo problemi enormi, la corruzione, l’emergenza sanitaria, non siamo ancora riusciti ad eliminare la poliomelite e abbiamo un tasso di analfabetismo tra i più alti del mondo.” Scrive Chibundu Onuzo. “Quale sarà la prossima tragedia ad attirare l’attenzione globale sul nostro paese? Questo è il momento di agire, di ampliare la nostra protesta. Questo è il momento di chiedersi in quale Paese vogliamo che queste facciano ritorno.”
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