Da sempre mi assilla pensare che ad ogni generazione risulti quasi necessitato dover provare a fare/sbagliare sempre laddove le precedenti fecero/sbagliarono: vorrei farmi paladino del dovere, prima ancora del diritto, dei giovani a sbagliare un passo oltre quello dove sbagliarono i loro genitori.
Trovo che ciò significherebbe per le persone un sostanziale grado di libertà in più.
Ho anche sempre pensato che chi non ha memoria non ha futuro.
Cerco così conforto nel Deuteronomio, capace di trasformare precetti in interiorità: “Guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita, le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli”.
Trasmettere memoria individuale/collettiva e saperi sedimentati, favorendo altresì il radicarsi di vera capacità critica, diviene così pre-condizione affinchè quel grado di libertà si faccia realtà: nel gergo internazionale, quella modalità di trasmissione viene di frequente definita ‘Bridging the gap‘.
Ciò è particolarmente vero anche nel campo di un ambientalismo che voglia essere al contempo anticorpo contro i rischi ed enzima/catalizzatore di nuove opportunità, campo cui mi è capitato di dedicare gran parte della mia vita.
Se dovessi evidenziare un elemento di continuità, nell’ambito del mio impegno, mi riferirei all’avere perseguito testardamente il «conoscere per trasformare», studiando sì, ma poi agendo sul reale alla ricerca del cambiamento auspicato negli stili di vita e di consumo verso la sostenibilità; ciò, avendo altrettanto bene a mente l’einaudiano ‘conoscere per deliberare’.
Al riguardo, titolavo la mia rubrica su “Scienza/Esperienza” del Luglio/Agosto 1987 “Conoscere per trasformare o mercato della politica?” e scrivevo:
‘Nelle società occidentali attuali, che evolvono verso la dematerializzazione e i bisogni post-acquisitivi, i fenomeni acquistano caratteri di complessità tali da rendere improba la coerenza verso il ‘Conoscere per trasformare’. Proprio per tale motivo, però, maggiore dovrebbe essere la vigilanza, tra gli ambientalisti nei confronti di lassismi culturali qua e là emergenti, nell’arcipelago. Dovremmo tutti essere avvertiti del rischio crescente di perdere di vista nessi e reti in cui si organizza il potere, attraverso un controllo sempre più sofisticato della risorsa fondamentale, l’informazione.
Queste note verranno pubblicate dopo la tornata elettorale e non passerò per disfattista a causa del mio rendere palese una sensazione di fastidio per come il movimento ambientalista, in alcuni suoi spezzoni, ha affrontato tale scadenza, privilegiando personalismi e meccanismi al limite del prepolitico e perdendo in capacità progettuale e di egemonia culturale. Si dirà che tutto questo era inevitabile e che la mia non era una visione laica dei processi. Se per laico si intende il rispondere “perché no?” a chi si interrogava sui contenuti e sui modi di fare ambientalismo in Italia, allora certo laico non sono. A me sta a cuore che lo sforzo del movimento ambientalista non duri lo spazio di un mattino e che, dagli spazi interstiziali, ci si muova per diffondere, nel lungo periodo, cultura e capacità contrattuale in strati sempre più ampi della società, mirando a radicare e ad approfondire un punto di vista, in materia di sviluppo e di governo del cambiamento, «altro» rispetto al dominante.
Chi progetta nel lungo termine non può concedersi scorciatoie o cadute di tensione, pena scadimenti di qualità, a livello di elaborazione culturale, che si tradurrebbero immediatamente in perdita di credibilità e di potere. Non voglio, con ciò, passare per il «fustigatore» degli ambientalisti, ma solo suggerire, memore della sufficienza tutta ideologica con cui guardammo, all’inizio degli anni Settanta, alla elaborazione del Club di Roma, una lettura estiva, “Cambiare con la tecnologia” (ISEDI Ed.), libro sulla gestione del cambiamento tecnologico, che analizza problemi quali la diffusione delle innovazioni e il mutamento del modello tecnico-economico, l’Europa tecnologica tra Stati Uniti e Giappone, la posizione italiana del nuovo ciclo dell’innovazione, i modelli del processo innovativo, la gestione strategica della tecnologia.
L’analisi mostra come, ai mutamenti dell’economia e della società verificatisi nell’ultimo decennio, abbiano contribuito ondate di nuove tecnologie spesso tra loro interagenti e correlate. Il complesso di innovazioni legate alla generazione, distribuzione e uso delle informazioni (dall’elettronica alle telecomunicazioni, dall’informatica alla robotica) va assumendo il ruolo di tecnologia dominante di questo scorcio di millennio, con una capacità di diffusione che cresce a ritmi accelerati.
In parallelo a quella dell’informazione, si sviluppano le aree strategiche dei nuovi materiali e delle biotecnologie. Caratteristica straordinaria di queste tecnologie è la loro capacità di interazione e sinergia, così come di applicazione in qualsiasi campo produttivo e attività umana, rivoluzionando i modelli di vita, di produzione e consumo. Cambiano così i beni, che si dematerializzano, richiedendo sempre meno materiali ed energia in fase sia di produzione che di consumo; cambiano i servizi, che si allargano e vengono supportati da nuove macchine e reti di telecomunicazione; cambiano i processi produttivi e con essi le strutture organizzative e la cultura di impresa; cambiano società civile e cultura. Ciò che, però, costituisce peculiarità di questo libro è il mettere in risalto come le opportunità di trasformazione, legate al diffondersi delle innovazioni, debbano fare i conti con una serie di problemi complessi, di natura politica, sociale e culturale, a esse intrinseci. Si fa riferimento, fondamentalmente, ai nodi posti dallo sviluppo delle tecniche dell’ingegneria genetica e del ricorso alle tecnologie del nucleare, che pongono rischi di natura completamente nuova per l’estensione nello spazio (contaminazione planetaria) e nel tempo (migliaia di anni) dei possibili impatti sull’uomo e sulla natura, per i riflessi sulla specie umana (alterazioni genetiche). Qui stanno i grandi nodi, oggi, del rapporto tra scienza, tecnologia, uomo e ambiente. La convivenza tra tecnologie complesse e società umana è possibile se improntata a fiducia e rispetto reciproci tra tecnologia e grandi masse di uomini e basata su chiarezza e rigore nell’informazione. Il testo arriva a concludere che oggi, a chi opera nell’ambito dell’innovazione tecnologica, è richiesta maggiore trasparenza e apertura, rifuggendo da approcci tecnocratici e da chiusure di casta, mentre é necessario un grande impegno per accrescere capacità di comprensione, valutazione e partecipazione alle scelte tecnologiche a livello di grandi segmenti della società. É questo un leit-motiv ben presente ai lettori di SE Scienza Esperienza, ma fa piacere che venga richiamato da uomini non certo di estrazione ambientalista e per di più sulla scorta di argomentazioni di grande interesse teorico e operativo.
Riprendiamo quindi, il cammino del «pensare globalmente, agire localmente», cercando con tutti i mezzi di accrescere il nostro grado di informazione, la nostra capacità critica, la nostra progettualità. In caso contrario, vedremmo rapidamente esaurirsi moda e novità «ecologista», frenare la presa sulla società, sedere in Parlamento alcuni di noi e aspettare, con sempre minori speranze, che la storia faccia uno dei suoi salti’.
Casualmente, a distanza di 27 anni, anche questo ‘blog’ arriva dopo una tornata elettorale: chi, come me, ha sempre ritenuto un errore portare l’ambientalismo, in Italia, al ‘mercato della politica’, riscontra oggi l’affievolirsi ‘al lumicino’ di quella opzione (lo scrivo senza alcun sentimento che non sia di tristezza, alla fine).
Vorrei però qui focalizzare l’attenzione su come l’Italia abbia operato ed ancora stia operando per rendere difficile il rispetto del precetto biblico citato, a partire dalla conservazione della conoscenza (anche solo) ambientale, oggetto della postulata trasmissione ai giovani che arrivano sul proscenio della vita.
Alcuni esempi, dal lungo elenco che si potrebbe stilare:
Contaminazione radioattiva: l’Istituto Superiore di Sanità ha informato nei giorni scorsi che il corposo studio pubblicato nei primi ’80 sulla radioattività riscontrata nell’area circostante la centrale del Garigliano (l’unica in Italia con ‘vessel’ sferico) non è più reperibile, a causa del passaggio da cartaceo ad informatico da allora intervenuto nella gestione dei documenti.
Energie Rinnovabili: il CNR conserva le decine di Rapporti frutto dei Progetti Finalizzati ‘Energetica’ 1976-1984 cui collaborarono i migliori Centri di Ricerca pubblici e privati del Paese ? Su quei Rapporti si fondava l’allora evidente leadership italiana nel settore dei censimenti di fonti rinnovabili disponibili sul territorio, delle relative tecnologie d’uso e della efficienza energetica, settore sul quale oggi siamo pressochè totalmente tributari di fornitori stranieri.
Ricerca Industriale: assistetti, da giovane collaboratore di Umberto Colombo in ENEA, al suo sconforto quando venne informato che la Biblioteca Montedison, curata da un suo diretto collaboratore sino a che Colombo stesso era stato Direttore Ricerca&Sviluppo di quel Gruppo, veniva portata a discarica, perchè i locali ad essa dedicati presso Largo Donegani avrebbero avuta altra destinazione in uno dei tanti cambiamenti che la politica impose alla chimica italiana. Quanti altri Archivi di testi, riviste e progetti di Gruppi industriali importanti sono finiti al macero? Quanti potremmo ancora salvarne, visto che nessuna Wikipedia ne traslerà i contenuti? Quanti modelli o prototipi che lo Smithsonian accoglierebbe con entusiasmo dobbiamo vedere buttati o stoccati nell’abbandono?
Città della Scienza: ho visto da vicino quanta fatica costò a Vittorio Silvestrini, ad Emanuele Vinassa de Regny e ad altri amici l’unica cosa bella realizzata sul sito dismesso di Bagnoli. Oltre a non essere stati individuati e perseguiti mandanti ed esecutori della sua distruzione, si sta cercando di salvare quel che si è sottratto all’incendio?
Conservare e trasmettere saperi, percorsi, invenzioni è risorsa primaria per un paese come l’Italia ed a quello scopo investimenti adeguati dovrebbero essere orientati, privati e pubblici, distraendoli da destinazioni ‘insostenibili’ per consentire ai nostri giovani fondamenta culturali solide, evitando loro la sgradevole esperienza di dovere anche passare sotto le forche dello ‘scoprire l’acqua calda’.
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