Politica

Brexit, e se ci fosse una via d’uscita?

Quello che tutti danno per l’unico dato certo del voto referendario, e cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, potrebbe non essere così certo. Almeno stando a Simon Tilford, vicedirettore del think thank londinese CER e all’avvocato Geoffrey Robertson, QC e fondatore del Doughty Street Chambers. Tutte le proposte sul tavolo

di Lorenzo Maria Alvaro

Mentre nel Parlamento Europeo si assiste al triste show tra Farage e Juncker che non perdono occasione per punzecchiarsi mettendo in scena un siparietto grottesco l’Europa comincia lentamente ad uscire dallo schock della Brexit. E lo fa, in particolare, cominciando ad immaginare che l’esito del referendum non sia così del tutto definitivo. Per stabilire e attuare l’uscita della Gran Bretagna infatti non basta il voto referendario. Esiste infatti un cavillo che può ribaltare del tutto la situazione. Il motivo? Quello successo ieri è solo una consultazione "consultiva", quindi poi deve essere il Parlamento a far muovere la macchina per far si che l'uscita dall'Ue diventi realtà.

In pratica, il governo britannico deve chiedere ufficialmente di uscire, come previsto dai trattati dell'Ue. «Ma non è ancora detto che succeda», ha spiegato Simon Tilford, vicedirettore del think thank londinese CER – Centro per le Riforme Europee, «Oltre il 70% del parlamento britannico è contrario ad un'uscita dall'Unione europea ed è proprio il parlamento che deve ratificare l'uscita».

Anche Geoffrey Robertson insigne giurista inglese, Queen's Counsel e fondatore della Doughty Street Chambers ci tiene a sottolineare che «il referendum è puramente consultivo».

Ma può un Governo, per altro dimissionario, decidere di dimenticarsi di un voto popolare tanto clamoroso?

«Per uscire dalla Ue c’è bisogno di una votazione parlamentare, lo stabilisce l’European Communities Act del 1975 che non è mai stata abrogato», sottolinea Robertson, «Il referendum dunque non ha alcun valore, dal punto di vista legale e burocratico. Per la nostra Costituzione solo i parlamentari possono decidere se e quando votare. E, stando a quello che è accaduto, potrebbero non essere in grado di farlo fino a novembre, quando gli effetti economici della Brexit saranno più chiari».

«Nel mese di novembre», continua Robertson, «il primo ministro Boris Johnson dovrà presentare in Parlamento la legge per l’uscita dall’Ue. A quel punto i parlamentari però non saranno chiamati a votare seconodo il referendum. Questo perché il loro mandato non risponde ad una dittatura della maggioranza. Il parlamentare inglese nell’esercizio delle sue funzioni deve perseguire solo il bene della Gran Bretagna. Per questo non è affatto detto che il voto stabilisca l’uscita», conclude Robertson, «Senza contare che a novembre lo scenario potrebbe essere completamente stravolto. Basti pensare che in questi giorni sembra siano migrati un milione di voti dal Leave al Remain».

La soluzione scozzese

Il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon ha dichiarato che l’assemblea legislativa di Edimburgo ha il potere di bloccare l’uscita della Scozia dall’Unione Europea. L’assemblea difatti può esprimere o meno il suo consenso alla Brexit e il veto dell’assemblea è vincolante per le sorti del Paese. In base agli accordi sulla “devolution” i deputati scozzesi hanno il potere di dare il loro parere sulle decisioni che vengono prese a Londra e che ricadono sulla Scozia. Il problema è però la possibilità di applicare questa decisione, dal momento che la Scozia e la sua assemblea possono mettere solamente un veto. Una cosa però è certa: la Scozia adesso è più unita e la Brexit ha comportato un aumento degli indipendentisti.

Insomma la strada per la Brexit sembra essere tutt'altro che segnata e vicina.

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