Welfare
Brain drain africano: prendi il bisturi e scappa
Stipendi da fame, sistemi sanitari in frantumi, corruzione dilagante e spesa pubblica in caduta libera. Per questo ci sono più pediatri malawiani a Manchester che in tutto il Malawi...
Di professione Corrado Passera fa il banchiere. Amministratore delegato di Intesa San Paolo, è alla guida di uno fra i gruppi bancari più potenti d?Europa. Con i numeri quindi c?è il forte sospetto che ci sappia fare, special modo quando in ballo ci sono centinaia e centinaia di milioni di euro.
Eppure c?è una cifra dalla quale Corrado Passera non si è mai del tutto ripreso: il numero uno. Scovato nel cuore dell?Africa australe, in Malawi, corrisponde al rapporto tra medici presenti nel Paese per ogni 94mila abitanti e, record mondiale, dell?unico pediatra messo gentilmente a disposizione dal governo malawiano per seguire vita, santi e miracoli di sei milioni di ragazzi e ragazze. «Sono cifre sconvolgenti», disse Passera il giorno in cui inaugurò nel maggio 2006 a Blan-tyre il primo centro sanitario di Project Malawi, l?iniziativa promossa da Banca Intesa e Fondazione Cariplo, in collaborazione con cinque realtà non profit (tra cui la Comunità di Sant?Egidio e Save the Children) e col governo nazionale.
Il caso del Malawi…
Attraverso un piano multisettoriale di lungo respiro, Project Malawi intende contrastare una pandemia, quella dell?Aids, che ogni anno uccide in questo limbo di terra africana 80mila persone, lasciando sul lastrico più di un milione di bambini orfani. Gli esperti giurano che se in Malawi l?Aids sguazza come in poche altre parti del mondo è per via dell?assenza quasi assoluta di un personale medico in grado di opporsi al flagello del XXI secolo. L?ultima prova di questa vera e propria emergenza sanitaria ci è stata fornita su un piatto d?argento dallo stesso Corrado Passera l?8 maggio scorso a Milano con l?annuncio di un accordo siglato tra Intesa San Paolo, Società italiana di pediatria e Società italiana di neonatologia per l?invio di un gruppo di 24 fra medici pediatri e neonatologi disposti ad operare in Malawi su turni di almeno un mese per un periodo di due anni.
«La necessità di inviare personale sanitario dall?Italia», sostiene Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant?Egidio, «si giustifica con il fatto che vi sono più pediatri malawiani in una città come Manchester che in Malawi». In inglese lo chiamano brain drain, fuga di cervelli.
Ogni anno oltre 20mila professionisti del settore sanitario (medici, ostetriche e soprattutto infermiere) emigrano dal continente africano verso l?Europa, il Nord America o, più di recente, i Paesi della penisola arabica, alla disperata ricerca di opportunità professionali che ricompensino anni di sudore spesi nei corsi di formazione universitaria. Così, dei 1.200 medici formati in Zimbabwe negli anni 90, soltanto 360 hanno deciso di rimanere in patria; in Ghana, si calcola che durante gli anni 80 il 60% del personale medico pronto a curare i ghanesi è fuggito dal Paese per offrire il proprio know-how ai cittadini britannici e nordamericani. Risultato: per compensare la mancanza di effettivi, i governi africani spendono ogni anno circa 4 miliardi di dollari per attirare 100mila espatriati sul continente. Ma tappare i buchi non basta.
Oltre a creare voragini nella spesa pubblica, un rapporto pubblicato nel 2005 della Commissione per l?Africa istituita da Tony Blair calcola che, a fronte della sciagurata situazione sanitaria, l?Africa avrebbe bisogno di formare entro il 2015 oltre un milione di medici e paramedici se vuole raggiungere gli Obiettivi del Millennio. In Swaziland, tanto per fare un esempio, manca all?appello il 56% del personale medico necessario per curare la popolazione locale. Colmare un gap così vitale diventa un miraggio se si pensa che oltreoceano gli Stati Uniti avranno bisogno entro il 2010 di un milione di nuovi infermieri per rispondere alle esigenze di malati anziani in vertiginoso aumento. «L?Europa, gli Usa e il Canada», spiegano in un articolo apparso di recente su Le Monde Diplomatique Karl Blanchet e Regina Keith, rispettivamente consulente per la sanità pubblica e responsabile politica di Save The Children, «non si sono curati di formare medici e paramedici in un numero sufficiente per rispondere all?invecchiamento della popolazione».
Così si va a pescare personale qualificato in Africa: costa dieci volte meno rispetto a un medico formato in Occidente ed è manodopera disposta a sottoporsi ad orari massacranti. La pesca diventa poi un gioco da ragazzi se si osservano attentamente le condizioni di salute in cui versano i sistemi sanitari africani: paghe da fame, corruzione e spesa pubblica per la sanità ridotta ai minimi termini sono la risposta più logica a chi si chiede perché in Africa il tasso di mortalità sia dodici volte superiore a quello europeo.
Il mondo rurale in agonia
Ventinove anni spesi sulla sottilissima linea di demarcazione che separa la morte dalla vita hanno finito per convincere Maurizio Murru, medico in forza all?ong italiana Cuamm, che sul continente africano il destino di un bambino afflitto da diarrea acuta o di una madre sieropositiva non è soltanto una questione di brain drain.
«Se molti dei medici in fuga fossero rimasti in patria, è probabile che a giovare della loro presenza sarebbero stati quei cittadini ricchi residenti nelle aree urbane. In Uganda», spiega Murru, «i distretti più poveri hanno soltanto il 26% di operatori sanitari necessari per soddisfare la domanda, mentre quelli più ricchi hanno il 263% del personale richiesto». Altro fenomeno negativo: il numero spropositato di medici che trovano riparo nel settore privato, oppure nelle ong e agenzie Onu. Per arginare il fenomeno c?è chi invoca l?aumento degli stipendi pubblici, altri sperano che coloro che vanno all?estero possano sul medio-lungo termine dare un contributo strutturale al proprio paese di origine. Chi vivrà, vedrà.
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