Cinema
Boyhood, elegia del cambiamento
A dieci anni dall'uscita nei cinema, l'arrivo sulle piattaforme di streaming è l'occasione per riscoprire il pluripremiato film di Richard Linklater. Un "romanzo di formazione" che ha seguito per 12 anni il piccolo Mason e la sua famiglia, mettendo a tema il cambiamento nella vita di tutti i giorni. E che per questo parla molto di ciascuno di noi
di Dafne Guida
La locandina del film Boyhood ritrae un bel bambino imbronciato sdraiato sull’erba che guarda il cielo. Questa immagine, che evoca contemporaneamente una sensazione di serenità e l’urgenza di indagare quello sguardo accigliato, è il motivo per cui ho deciso di vedere il film. Non conoscevo né il regista né il progetto innovativo che aveva intrapreso. È stata una sorpresa.
Boyhood rappresenta un’opera cinematografica straordinaria che si distingue per il suo approccio originale e unico nel suo genere. L’opera, uscita nel 2014 ma apparsa su Netflix di recente, spinge dopo poche scene ad immergersi completamente nella storia di Mason e della sua famiglia. La trama del film, che si snoda lungo dodici anni nella vita di Mason, parte dalla sua infanzia all’età di 6 anni fino al suo passaggio all’età adulta. Attraverso questo arco temporale, assistiamo alla trasformazione di Mason, al suo rapporto con la famiglia e al suo percorso di crescita e maturazione. Ciò che colpisce maggiormente è la normalità della narrazione, che tratta degli alti e bassi della vita di tutti i giorni: controversie familiari, relazioni amorose, successi e fallimenti.
Il cambiamento in atto
Uno degli aspetti più affascinanti di Boyhood è la capacità di mostrare il cambiamento in atto seguendo la crescita e l’invecchiamento degli attori. Attraverso la performance attoriale dei protagonisti, assistiamo alla trasformazione fisica e psicologica dei personaggi nel corso degli anni, offrendoci uno sguardo autentico e realistico sulla crescita e sull’evoluzione delle relazioni interpersonali. Il legame tra Mason e la sua famiglia di origine (madre, padre e sua sorella Samantha) rappresenta un elemento cardine della narrazione. L’intreccio dei loro rapporti, segnato da momenti di tenerezza e da conflitti fisici e verbali, si evolve nel corso degli anni, trasformandosi in un necessario quanto fatale allontanamento agito in modo maturo e consapevole alla vigilia della partenza per il college.
Questo percorso è un riflesso dell’esperienza universale di crescere e di imparare a gestire i conflitti e le relazioni familiari. Nei conflitti con la sorella Samantha ad esempio Mason esperisce la possibilità che solo chi ha un fratello o una sorella può avere ovvero potersi misurare rispetto alla propria onnipotenza e imparare la gestione del conflitto e le doti della negoziazione.
Lo scorrere del tempo
La durata di dodici anni di produzione di Boyhood conferisce al film una profondità e una complessità uniche. La possibilità di osservare i cambiamenti fisici e emotivi dei personaggi nel corso del tempo a mio avviso aggiunge un livello di realismo e autenticità alla narrazione, trasformando il film in un vero e proprio atto di fede nel potere trasformativo del cinema. Il cast del film, che si è riunito annualmente per i dodici anni di riprese, ha contribuito in modo significativo alla costruzione di un’opera cinematografica fuori dall’ordinario. Il loro impegno costante nel portare avanti il progetto, nonostante i cambiamenti nella propria vita personale, ha reso Boyhood non solo un film, ma una metafora esistenziale di come il cambiamento sia parte integrante della nostra esistenza. Interessante in questa prospettiva del cambiamento anche ciò che avviene agli adulti del film: Olivia, la madre di Mason decide di trasferirsi e tornare a studiare per costruire un futuro migliore per se stessa e per i suoi figli tra mille difficoltà. È commovente la scena in cui vediamo i piccoli mentre caricano la macchina per il trasloco di oggetti cari, con un broncio infinito: arrabbiati con questa mamma esigente che non si accontenta e si mette a “sfidare” la vita.
Attraverso la narrazione di una storia fatta di piccoli momenti di vita, il film ci ricorda il potere trasformativo del tempo e delle relazioni: il cambiamento è inevitabile e spesso “non fa rumore” pur rendendo le nostre vite più ricche e complesse ogni giorno di più.
La normalità protagonista
Boyhood pur non raccontando altro che lo scorrere del tempo rappresenta uno dei più importanti esperimenti cinematografici del nuovo millennio, offrendoci uno sguardo profondo e autentico sulla natura umana e sulle sfide della crescita e della maturazione. Attraverso la narrazione di una storia fatta di piccoli momenti di vita, il film ci ricorda il potere trasformativo del tempo e delle relazioni: il cambiamento è inevitabile e spesso “non fa rumore” pur rendendo le nostre vite più ricche e complesse ogni giorno di più.
La frase più bella del film è probabilmente quella che una ragazza dice a Mason davanti allo spettacolo di un tramonto: «Sai quando si dice “cogli l’attimo”? Bé io credo che sia il contrario, che sia l’attimo a cogliere noi». Ed è così: in questo film sono i pezzetti di vita, gli attimi a cogliere la nostra attenzione e a guidarci in un tuffo, anche nel nostro passato, alla ricerca di quegli stessi episodi o frammenti nel nostro romanzo di formazione. La normalità si fa protagonista e i due ragazzi che vediamo nello schermo ad uno sguardo più attento possono somigliarci più di quanto crediamo. Un film che regala un viaggio nel tempo e qualche sorpresa quando da una scena all’altra ti rendi conto che al bambino della prima scena sta crescendo la barba.
In parallelo con Truffaut
Boyhood mi ha ricordato un film d’autore più volte utilizzato in contesti formativi e di supervisione pedagogica, I 400 colpi di Truffaut. Il film di Truffaut, però, esplora più in profondità le emozioni e le esperienze interiori del giovane Antoine, mettendo in risalto l’alienazione e la ricerca di identità proprie dell’adolescenza. Entrambi i film trattano il tema della crescita e della formazione ma Boyhood si distingue per il suo approccio temporale unico e realistico, mentre I 400 colpi si contraddistingue per il suo stile più poetico e per l’approfondimento psicologico dei personaggi.
Il regista Linklater, parlando di questo film lo ha definito “un progetto artistico simile ad un campo estivo annuale nel quale ci ritrovavamo a girare ogni anno un pezzetto della storia”. Immaginiamo qualcuno che si sia messo a conservare e a documentare un giorno per ogni anno della nostra vita… non finiremmo per chiedergli di proiettarci la nostra vita su uno schermo ? Non finiremmo per chiedergli di raccontarci come eravamo? E infine… non finiremmo per amarlo?
Dafne Guida è pedagogista, presidente e direttore generale della cooperativa Stripes, appassionata di cinema. In foto, Richard Linklater, Lorelei Linklater, Ellar Coltrane and Patricia Arquette al film festival di Berlino nel febbraio 2014. Photo di Aurore Marechal, LaPresse
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