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Bosnia Erzegovina: i fondi ci sono ma il sistema di accoglienza per i migranti non esiste

«I migranti in Bosnia Erzegovina vivono in condizioni di degrado. L’abbandono non è dovuto alla mancanza di risorse da investire in piani di accoglienza, ma è una precisa scelta politica che lascia le persone in queste condizioni senza dignità», dice Gianfranco Schiavone, del direttivo dell’Asgi, associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, che ha contribuito alla stesura del rapporto “Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea”

di Anna Spena

Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza – Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea” è l’ultimo rapporto curato dalla Rete Rivolti Ai Balcani. «Dalla primavera del 2018, a due anni dalla “dichiarazione” Unione europea-Turchia, con la chiusura di ogni canale d’ingresso legale nell’Ue, con l’aumento dei respingimenti e della violenza da parte delle autorità croate e con il totale fallimento del sistema delle liste d’attesa per accedere in Ungheria dai campi finanziati dalla stessa Unione situati in Serbia, la Bosnia ed Erzegovina (Bih) è diventata il nuovo crocevia per entrare in Ue da parte dei rifugiati provenienti dalle aree di conflitto e di elevata instabilità politica del Medio Oriente ed in particolare da Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan», si legge nel rapporto. «Se inizialmente Sarajevo ha costituito la prima tappa di questo percorso, con centinaia di persone che dormivano in centro città in attesa di proseguire il viaggio, sono state Bihać e Velika Kladuša, due cittadine del Cantone Una-Sana a ridosso del confine con l’Unione Europea, nella parte Nord-occidentale del Paese, a diventare il centro nevralgico di questa nuova rotta, costituendo la base da cui partire per tentare di penetrare in territorio croato e di percorrere a piedi i circa 240 chilometri fino al confine italiano o austriaco, per poi eventualmente proseguire verso altri Paesi».

Ma «quello che si sta verificando negli ultimi anni in Bosnia non è un’emergenza», dice Gianfranco Schiavone, del direttivodell’Asgi, associazione Studi Giuridici sull’immigrazione, che ha contribuito alla stesura del rapporto. «Dal 2018 il numero di persone arrivate nel Paese è aumentato, ma la situazione non è mai divenuta realmente non gestibile se guardiamo i dati oggettivi dei flussi». Eppure dal 2018 all’ottobre 2019, gli aiuti attribuiti alla BiH per far fronte alla situazione dei migranti sono stati pari a 5,8 milioni di euro. A questi si sono aggiunti 4,5 milioni nell’aprile del 2020 e 3,5 milioni a gennaio 2021, per un totale di 13,8 milioni. Oltre a questi importi, stanziati attraverso uno specifico meccanismo per le emergenze, nel periodo 2018-2021 l’Unione europea ha assegnato alla Bosnia ed Erzegovina altri fondi per la gestione delle migrazioni, l’implementazione del sistema d’asilo e di accoglienza nonché la gestione delle frontiere per complessivi 88 milioni di euro. Ai fondi dell’Unione europea si sono poi aggiunti quelli di altre istituzioni o governi nazionali.

«I numeri complessivi delle presenze in Bosnia sono bassi, parliamo di poche migliaia di persone. L’emergenza quindi non c’è mai stata e niente può giustificare il degrado in cui stanno vivendo le persone negli ultimi anni: dai campi profughi inadeguati agli accampamenti negli squat, fabbriche e case abbandonate», dice Schiavone. «I rifugiati, i migranti, qui vivono in condizioni di abbandono. L’abbandono però non è dovuto alla mancanza di risorse da investire in piani di accoglienza, ma a una precisa scelta politica che lascia le persone in queste condizioni senza dignità e lo fa con due obiettivi precisi: il primo scoraggiare i migranti ad arrivare e il secondo diffondere nell'opinione pubblica europea l'idea di un’invasione, di una situazione difficile da gestire. Come ha speso la Bosnia i fondi ricevuti? Non nella creazione di un sistema effettivo di accoglienza e protezione dei rifugiati».

Nelle intenzioni delle persone richiedenti asilo, i Paesi dei Balcani occidentali sono esclusivamente luoghi di transito, una tappa di passaggio per arrivare in Europa centrale, dove raggiungere parenti, reti amicali e comunità già radicate o dove auspicare di avere maggiori possibilità di ottenere protezione, ricostruirsi una nuova vita e inserirsi sul piano sociale e lavorativo. Questa realtà viene confermata anche dai dati forniti dall’Unhcr, secondo cui nei cinque Stati dei Balcani occidentali (Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) si registra un numero relativamente elevato di migranti che manifestano l’intenzione di chiedere asilo ma successivamente l’effettiva formalizzazione della domanda riguarda pochissimi casi e infine pressoché tutti abbandonano la procedura, tanto che l’esame delle richieste viene condotto su un numero minimo di casi. In particolare in Bosnia ed Erzegovina, nel 2020, su 14.432 manifestazioni di volontà di chiedere protezione, i procedimenti effettivamente avviati sono stati solo 244 (pari all’1,7% del totale. A marzo 2021 le domande pendenti risultano essere 237 di cui 109 presentate da persone appartenenti a nuclei familiari).

«La lettura che vede nella Bosnia solo un luogo di transito dove non investire nella costruzione di un sistema di accoglienza adeguato alle possibilità reali del Paese è molto superficiale», dice Schiavone, «dai dati emerge un quadro ben più complesso della facile spiegazione che riconduce l’assenza dei rifugiati nei Balcani alla sola ragione legata alla loro scelta di andare altrove. Tale spinta, che senza alcun dubbio esiste, è prodotta anche dal fatto che provare a rimanere è impossibile; le condizioni di assoluto e inaccettabile degrado nei campi di “accoglienza”, la mancanza di ogni forma di accoglienza ordinaria alternativa alla logica dei campi, la radicale assenza di qualsiasi percorso d’integrazione sociale, anche per i pochi titolari di protezione internazionale, l’applicazione di criteri rigidi e i tempi d’attesa lunghissimi per l’esame delle domande (in Bosnia ed Erzegovina prossimi a due anni, nonostante i pochissimi richiedenti), la mancanza, nei diversi ordinamenti, di una forma di protezione aggiuntiva a quella internazionale, compongono un paradigma espulsivo durissimo».

«Si aggiunga infine«, continua schiavone, «l’assenza di programmi pubblici per l’inclusione sociale rivolti allo sparuto numero dei rifugiati riconosciuti e il messaggio finale appare di lampante e cinica chiarezza: nessuno si deve fermare. La politica della UE verso la Bosnia è al momento solo quella di bloccare le persone nella Bosnia senza dare loro nessuna prospettiva di futuro, nè quella di programmi di reinsediamenti nella Ue, nè di potere restare in Bosnia. I campi per i migranti in Bosnia sono campi di confinamento in cui tenere persone di cui l'Europa si vorrebbe liberare e che, in mancanza di ogni prospettiva, vengono tenuti in condizioni di assoluto degrado. Nel Report viene descritta la parabola del campo di Lipa, un luogo che solo a dicembre 2020 era l'emblema di ciò che non avrebbe dovuto esistere e che andava chiuso al più presto. Come in una magica metaformosi, appena pochi mesi dopo, lo stesso desolato campo di confinamento fatto di tendoni e container su un altopiano lontano trenta kilometri dal più vicno centro abitato non solo non è stato smantellato ma è divenuto il campo nel quale ammassare migliaia di persone, tra cui famiglie e persino minori non accompagnati. È inaccettabile che tutto ciò venga fatto con fondi europei. L'Europa deve cambiare radicalmente la sua strategia in Bosnia e deve puntare a costruire un sistema di effettiva accoglienza e protezione dei rifugiati intrappolati nel piccolo e fragile paese balcanico. E soprattutto va attuato un programma europeo, o se è impossibile,un programma realizzato da alcuni paesi volonterosi, di reinsediamento dei rifugiati dalla Bosnia superando l'irrazionale paura che oggi blocca questi piani ovvero quella di creare un "pull-factor" di altri rifugiati verso la Bosnia. È la stessa teoria priva di alcun fondamento scientifico che, applicata alla Libia, ha generato enormi sofferenze senza offrire nessuna soluzione».

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