Non profit

Borzaga: Impresa sociale 2.0, ecco la strada

In Italia il tema dell’impresa sociale ha continuato a non interessare la politica. La riflessione su ruolo e potenzialità dell’impresa sociale e sulle politiche possibili è invece proseguita con una certa intensità a livello europeo. Si può fare di più, ecco come

di Redazione

Lo scorso 12 settembre, in apertura del XI Workshop sull’impresa sociale di Iris Network Carlo Borzaga, professore di Politica Economica all’Università di Trento e Presidente di Euricse – European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises, ha tenuto una interessantissima relazione di cui qui vi proponiamo uno stralcio relativo alla necessità di modifica della legge 155/06. Per chi fosse interessato in allegato la relazione integrale (in allegato la versione integrale).

Negli anni passati il mio intervento introduttivo era dedicato a riportare gli eventi che nel corso dell’anno avevano interessato le imprese sociali. Quest’anno abbiamo pensato di utilizzare questa relazione di apertura anche per introdurre il tema del workshop: “Il valore delle relazioni. Coinvolgere per innovare”, nella convinzione che proprio questa specificità dell’impresa sociale – l’essere cioè impresa inclusiva e relazionale – sia stato e ancor più sia oggi e sarà nel futuro (in particolare a seguito e dopo la crisi in corso) uno dei vantaggi specifici di questa forma di impresa, un vantaggio che va meglio messo a fuoco per essere potenziato attraverso modelli organizzativi, strategie e investimenti di risorse coerenti.

Prima di affrontare il tema ritengo però utile soffermarmi brevemente su due informazioni relativa all’anno passato:
a.    Mentre in Italia il tema dell’impresa sociale ha continuato a non interessare la politica – nonostante abbia dimostrato capacità di reggere alla crisi, nel discorso di insediamento del governo Letta non è stato fatto alcun accenno né all’impresa sociale né più in generale al terzo settore – la riflessione su ruolo e potenzialità dell’impresa sociale e sulle politiche possibili è invece proseguita con una certa intensità a livello europeo. Il gruppo di supporto alla Commissione istituito dopo il lancio della Social Business Initiative si è trovato con regolarità e le sue proposte hanno iniziato a essere prese in considerazione dai funzionari della UE. E’ partito un lavoro di mappatura dell’impresa sociale in Europa e sono in preparazione diversi documenti (anche su temi delicati come aiuti di Stato e regole della concorrenza) che dovrebbero portare a modifiche interessanti a partire dal 2014. L’impresa sociale inoltre è entrata in pieno tra i soggetti che possono beneficiare dei fondi europei. E’ inoltre in corso di preparazione una conferenza europea sul tema che si terrà a Strasburgo nei giorni 16-17 gennaio 2014, dal titolo “Social Entrepreneurs: Have Your Say. Empowering European social entreporeneurs for innovation, inclusive growth and job” Non tutto ciò che sta avvenendo a livello europeo è convincente, spesso c’è ancora confusione su cosa si debba intendere per impresa sciale e soprattutto su come sostenerla (c’è, ad esempio, un’enfasi eccessiva sul ruolo della finanza) e su come misurarne l’impatto sociale. Forte è la tendenza a includere sotto la definizione di impresa sociale anche imprese che perseguono obiettivi di profitto (la famosa “double bottom line”), ma ciò che più conta in questa fase è che la riflessione procede, tra l’altro con il coinvolgimento di tre DG e di tre Commissari. E con un importante supporto del CESE e del Parlamento (diverse risoluzioni sul tema);

b.    stanno cominciando a uscire i dati del Censimento dell’Industria e del Commercio, e in particolare sul settore non profit, relativi alla situazione al 2011 e variazioni rispetto al 2001. Visto che i media vi hanno dato poco rilievo – anzi, hanno dato rilievo quasi solo alle lamentele dei sindacati sulla riduzione degli occupati nelle pubbliche amministrazioni – è il caso che almeno in questa sede ne facciamo cenno, in particolare con riferimento alla cooperazione sociale che risulta il fenomeno più rilevante, dal punto di vista occupazionale, all’interno sia del non profit che della cooperazione. Al 31.12.2011 le cooperative sociali censite sono state 11.264 (un valore più vicino alle oltre 13.000 censite da Unioncamere e assai superiore sia a quelle del 2001 – 5.674 – che a quelle del 2005 – 7.500 circa). La crescita nel decennio è stata del 98,5%, contro poco più del 75 registrato dall’insieme delle imprese. Queste cooperative occupano 350.000 addetti (+129,5% rispetto al 2001), quasi un terzo dell’intera occupazione generata dalle cooperative e quasi il 40% del totale occupati nel non profit (957,124). Interessante è stata anche la dinamica economica e occupazione delle cooperative sociali nel corso della crisi. Dal 2007 al 2011 il valore della produzione nelle 8.255 cooperative sociali di cui sono disponibili i dati per l’intero periodo è cresciuto del 33% (anche se con un tasso di crescita in diminuzione lungo il periodo), accompagnato da una sensibile riduzione del risultato d’esercizio (da 80 milioni a 25, una riduzione del 70,2%). In altri termini, coerentemente con il proprio obiettivo, le cooperative sociali hanno cercato di mantenere, se non di incrementare l’offerta di servizi anche accettando remunerazioni inferiori (o nulle?) e riducendo i margini. In questo modo non solo hanno salvaguardato l’occupazione, ma l’hanno accresciuta nonostante la crisi, risultando uno dei pochissimi settori che si è mosso in controtendenza rispetto al resto dell’economia. I valori delle variazioni sull’andamento dell’occupazione nelle cooperative sociali, tuttavia variano a secondo delle fonti: si va da un +24,2% secondo i dati Unioncamere (su 8.255 cooperative) e un +18% secondo il Censis (riferiti sembra alle sole cooperative aderenti alle tre principali centrali) al +8,3% per l’Inps (ma dal 2008 al 2011 e per tutte le posizioni lavorative registrate nell’anno), ma +12,2% degli occupati dipendenti (inclusi gli stagionali). Tutto ciò nonostante le difficoltà finanziarie delle amministrazioni locali, con buona pace di chi in questi anni ha sostenuto la totale dipendenza delle cooperative sociali dal settore pubblico.
(…)

La prima indicazione è che il modello multi-stakeholder non è ancora utilizzato a pieno neppure nella cooperazione sociale. Nel corso del tempo esso si è evoluto, includendo nuovi soggetti, ma è rimasto impermeabile agli utenti dei servizi. Su questo fronte credo che vada avviata, innanzitutto dentro le stesse cooperative, una riflessione, specie nelle cooperative che si apprestano ad operare in settori diversi da quelli tradizionali, come l’istruzione, la cultura, l’housing ecc., dove non solo possono nascere cooperative sociali di utenza, ma dove il coinvolgimento degli utenti può non solo aiutare a  instaurare relazioni fiduciarie tra gli stessi e la cooperativa, ma può anche dar luogo a vere e proprie forme di coinvolgimento nella gestione dei servizi (secondo il modello del pro-consumer). Con benefici evidenti sulla produttività e sui costi. Ricordo in proposito che non è neppure necessario fare diventare gli utenti soci, basta prevedere negli statuti che essi possano essere nominati, dall’assemblea dei soci comunque composta, come amministratori.

La seconda indicazione riguarda invece l’opportunità o meno di normare la governance multi-stakeholder e i contenuti di una eventuale normativa al riguardo. Nel merito della questione i legislatori hanno assunto posizioni diverse. Da una parte abbiamo la legge sulla cooperazione sociale che lascia ampia libertà di scelta, con l’unico limite alla presenza di volontari nella base sociale (non oltre il 50% al totale dei soci). Dall’altra, e all’opposto, abbiamo la legge francese istitutiva della Societè cooperative d’interét collective (Scic) impone la presenza nella base sociale almeno tre tipologie di portatori di interesse, tra cui obbligatoriamente i lavoratori. Con il senno di poi i numeri dimostrano che la scelta giusta e realmente innovativa (dove la legge si è di fatto limitata a recepire il modello inventato dalle prime cooperative sociali) è stata quella italiana di lasciare le imprese libere di scegliere il proprio modello di governance, senza né obbligare né impedire. E ciò sarà ancora più vero in futuro, man mano che le imprese sociali allargheranno la propria attività a nuovi settori, con nuove tipologie di portatori di interesse da coinvolgere.

Quest’ultima riflessione offre anche alcuni spunti importanti per la discussione sulla riforma della legge italiana sull’impresa sociale di cui si discuterà in una apposita sessione di questo workshop. Ricordo in proposito che c’è ormai una larga convergenza a livello europeo (meno a livello internazionale) sul definizione – anche giuridica – di impresa sociale: Essa deve avere, con intensità da definire volta a volta tre caratteristiche:

  • essere impresa a tutti gli effetti, cioè garantire una produzione di beni o servizi continuativa e professionale, avere ricavi basati su corrispettivi per l’attività svolta ed essere soggetta a tutte le regole previste dall’ordinamento del paese per qualsiasi tipo di impresa;
  • avere un esplicito obiettivo sociale e produrre un bene o un servizio riconosciuto come sociale, nel senso di essere ritenuto di interesse generale (o “comune” come ormai si usa dire)
  • avere un modello di governance che garantisca inclusione e partecipazione e sia regolata in modo da garantire che tutte le risorse dell’impresa sono destinate al perseguimento dell’obiettivo sociale. Poiché tutta anche l’impresa sociale è innanzitutto un’impresa, che ha bisogno di capitale di rischio per nascere e crescere, essa deve poter remunerare, benché in modo limitato e almeno in parte questo capitale. La garanzia va quindi spostata sulla indivisibilità del patrimonio che garantisce che nessuno in nessuna circostanza possa appropriarsi del valore dell’impresa, pur consentendo una limitata distribuzione degli utili correnti.

Le proposte di riforma della legge sull’impresa sociale devono prendere avvio da una verifica della coerenza del testo con tutte tre queste caratteristiche e non con una o alcune soltanto. Con riferimento al punto relativo alla governance, se da una parte è condivisibile la proposta di allentamento del vincolo alla distribuzione di utili, purché resti fermo quello sul patrimonio, dall’altra va fatta una riflessione critica anche sulle norme relative alle limitazioni alla presenza di consiglieri di minoranza rappresentanti dei soci for-profit o pubblici. L’attuale drastica limitazione è infatti in contrasto con la libertà di composizione della base sociale: il pericolo che l’impresa sociale finisca sotto il controllo da parte di soci for-profit o pubblici può essere evitato imponendo che i loro rappresentanti non possano costituire la maggioranza dei consiglieri e non è necessario impedire ogni loro presenza attiva nella gestione dell’impresa. Anche perché questa può essere, più di qualche centinaio di euro di utili, il vero legittimo scopo della loro partecipazione all’iniziativa.

Il modello dell’impresa sociale presenta diversi aspetti di innovazione troppo spesso negati, sottovalutati o non sufficientemente approfonditi e sfruttati. Questi nostri incontri – sia il workshop che il Colloquio scientifico così come la rivista Impresa Sociale che in accordo con CGM da quest’anno è pubblicata da Iris Network in forma elettronica e ad accesso gratuito – devono sempre proporsi di fare qualche passo avanti nella loro comprensione.
 


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