Non profit
Borzaga: ecco perchè gli emendamenti del sen. Lepri sono ragionevoli
Gli emendameti del relatore hanno suscitato molte critiche, il professor Carlo Borzaga spiega perchè a parer suo sono invece ragionevoli. Riccardo Bonacina risponde rilanciando il dibattito
La presentazione da parte del sen. Lepri di alcuni emendamenti al testo della riforma del Terzo Settore approvato dalla Camera ha suscitato reazioni diverse, sia da parte di alcuni colleghi della Camera che di diversi addetti ai lavori. In particolare quelli all’art. 6, riguardanti l’impresa sociale, hanno suscitato alcune reazioni critiche, tra cui quelle di Stefano Arduini su Vita.it l’8 settembre scorso (qui), a cui vorrei ribattere perchè, se approfondite alla luce di una lettura attenta degli stessi emendamenti, sembrano perdere molta della loro apparente incisività.
La prima critica riguarda la proposta di Lepri di qualificare l’impresa sociale “quale ente di Terzo settore, ai sensi all’articolo 1 comma 1 e dell’articolo 4, che svolge attività imprenditoriale» perchè in questo modo si modificherebbe la precedente definizione che teneva l’impresa sociale fuori del perimetro del Terzo settore. Un perimetro che anche dopo la riforma non dovrebbe ricomprendere soggetti doversi da quelli del libro primo del codice Civile. Basta tuttavia leggere la definizione di Terzo Settore data dalla Camera (e assente nel testo del Governo), e che non risulta che Lepri proponga di modificare, per rendersi conto che queste critiche non reggono. La definizione infatti già include, senza ombra di dubbio, anche l’impresa sociale in qualsiasi forma costituita. Infatti se per Terzo Settore si intende “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità”, è chiaro che l’impresa sociale, così come definita fino ad oggi e nella stessa proposta di legge, ne fa parte a tutti gli effetti. Infatti non solo obiettivi e attività dell’impresa sociale sono compresi nella definizione, ma anche la distribuzione parziale di utili nella misura prevista per le cooperative sociali (e più in generale per quelle a mutualità prevalente) è ormai ritenuta compatibile con l’assenza di scopo di lucro. Inoltre mi sembra del tutto condivisibile che, avendo già una definizione di impresa sociale – quella della legge delega 118/05 – molto più chiara di quella proposta dal Governo e parzialmente modificata dalla Camera, si eviti di darne una nuova finendo per creare solo confusione. Una confusione che a volte si ha l’impressione che qualcuno stia cercando di alimentare, quando attribuisce a Lepri di volere fare un passo indietro rispetto al dibattito più recente, tornando a definire l’impresa sociale per ciò che è e non per ciò che fa e per come lo fa. Dimenticando che da sempre in Italia l’impresa sociale è stata definita sia per ciò che è (obiettivi, vincolo alla distribuzione di utili e modalità di governace), che per ciò che fa, essendo vincolata allo svolgimento di un numero limitato di attività (quelle che il legislatore ha ritenuto di utilità sociale).
La seconda critica riguarda invece la proposta di non consentire la «remunerazione di capitale e ripartizione degli utili alle forme giuridiche per le quali tale facoltà è esclusa per legge, anche qualora assumano la qualificazione di impresa sociale», proposta che si discosterebbe da quanto previsto dalla Camera. Secondo i critici, si impedirebbe così ad imprese sociali costituite in forma di associazione e fondazione di distribuire utili nella misura consentita alle altre forme di impresa sociale, limitandone le possibilità di sviluppo. Anche questa critica appare tuttavia priva di fondamento. Lepri infatti non fa altro che chiarire quanto già era nelle intenzioni della Camera: non consentire la distribuzione di utili ad associazioni e fondazioni. Una volontà che la Camera aveva formalizzato con la frase “differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa”, (art.6, comma 1, lettera d), con cui si volevano proprio escludere fondazioni e associazioni dalla distribuzione limitata di utili prevista per le altre forme giuridiche. E non, come forse qualcuno ha pensato, consentire limiti meno stringenti per imprese sciali in forma di Srl e Spa.
Anche le proposta di Lepri di togliere la frase “in ogni caso la prevalente destinazione degli utili deve essere riservata al conseguimento degli obiettivi sociali”, serve a fare chiarezza. Infatti sia nella tradizione italiana che nella stessa Comunicazione della Commissione Europea è chiaro che gli utili dell’impresa sociale non vanno destinati ad un generico perseguimento di obiettivi sociali (come può fare qualsiasi impresa che voglia adottare pratiche di responsabilità sociale), ma al perseguimento degli obiettivi sociali della stessa impresa sociale. Destinazione che è appunto garantita dal vincolo alla distribuzione di utili previsto dall’emendamento.
Forse non piace ai critici che con le sue proposte di modifica il sen. Lepri cerchi di chiarire quei passaggi del testo licenziato dalla Camera che ancora lasciano indefinito il confine tra imprese sociali in senso stretto – che stanno a tutti gli effetti dentro il Terzo Settore – e imprese socialmente responsabili ma pur sempre a fine di lucro. Ma è proprio questo chiarimento la condizione perchè la riforma non faccia un passo indietro anche rispetto alla evoluzione in corso in Europa. Nella convinzione che c’è bisogno di tutte due le tipologie di impresa, senza volere a tutti i costi metterle sullo stesso piano.
Carlo Borzaga
Nota di Riccardo Bonacina
L’intervento del professor Borzaga dimostra una volta di più quanto le spinte conservative che ostacolano il percorso di una Riforma necessaria a togliere il Terzo settore da un regime “concessorio”, umiliante, di minorità e di dipendenza dai favori della Pubblica Amministrazione, arrivino più da circoli accademici che dalla realtà associativa che invece preme e freme (basta consultare questo sito). È vero, Vita ha incalzato i lavori parlamentari sulla Riforma sottolineando lentezze, paradossi, incongruenze nei lavori. In particolare quelli del Senato. Ora capisco che il professor Borzaga voglia difendere il senatore Stefano Lepri da cui è legato da antica amicizia (e questo gli fa onore), ma oggettivamente non si è mai visto un relatore che, sia pur ingaggiato dal maggio 2014 nel gruppo di lavoro di parlamentari che hanno lavorato da subito sul testo del Governo, arriva quindici mesi dopo a presentare ben 24 emendamenti tra cui la riscrittura di 4 articoli e mezzo su 10 sconfessando così il lavoro di deputati con cui aveva lui stesso condiviso un percorso già abbastanza lungo! Addirittura, sembra, questionando “sulle intenzioni” della Camera dei deputati, quando in un ìemendamento si penalizzazno associazioni e Fondazioni, ma perchè mai non potrebbero costituire un'impresa sociale al pari di altri soggetti non profit? Penso all'Avis con oltre 1000 dipendenti, o all'Anpas, continuare con le Srl parallele?
Nel merito cercando di non affogare nell’autoreferenzialità e nel tecnicismo che sempre ostacolano l'innovazione. Ma come si può sostenere che “avendo già una definizione di impresa sociale – quella della legge delega 118/05 – molto più chiara di quella proposta dal Governo e parzialmente modificata dalla Camera, si eviti di darne una nuova finendo per creare solo confusione”? Professore quella definizione di impresa sociale è talmente chiara ed efficace da aver prodotto in 10 anni 800 imprese sociali, nate fra l’altro per qualche vantaggio fiscale concesso dalla Regione Campania e nell’ambito della scuola. La verità, prof, è che quella legge è stata scritta da chi in Italia non ha mai voluto introdurre una vera impresa sociale. Dal frutto si riconosce l’albero. La definizione di impresa sociale contenuta nella Legge Delega così come approvata alla Camera è vero aggiunge alcuni valori rispetto alla 118/05, ma sono valori irrinunciabili se si vuole fare un passo avanti. “La realizzazione di impatti sociali positivi”, “modalità di gestione responsabili, trasparenti”, “il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti”, se questi le sembrano elementi che generano confusione? Certo generano confusione a chi vuole continuare a fare i propri, piccoli, interessi.
Lei scrive anche che “da sempre in Italia l’impresa sociale è stata definita sia per ciò che è (obiettivi, vincolo alla distribuzione di utili e modalità di governance), che per ciò che fa, essendo vincolata allo svolgimento di un numero limitato di attività”. Anche qui, se davvero si ha a cuore la crescita di un’economia sociale e sostenibile che esca dagli attuali recinti, bisognerà una volta per tutte uscire dal nominalismo e dal legalismo. È mai possibile ridurre il “cosa fa” l’impresa sociale ai settori ex legge? Anche la cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi stava in questi parametri! Bisognerà fare qualche passetto avanti se non si vuol continuare su una strada che ha mostrato tutti i suoi limiti. E fare un passo in avanti significa non aver paura della misurazione dell’impatto sociale (parola che Lepri in un emendamento ha non caso chiesto di sopprimere).
Paradossalmente, a me pare più coerente il senatore Luigi Marino, presidente per oltre vent’anni di Confcooperative, che chiede l’abolizione dell’art. 6, quello sull’impresa sociale. Ovvero, non avrai altra impresa sociale se non le cooperative. Va bene così? Professore, i suoi studi e le sue ricerche sono state e sono essenziali per capire le dinamiche dell’economia sociale, ma la prego non si arrocchi in un recinto, quello del Terzo settore para pubblico o delle sole 12 mila cooperative sociali, le sfide che abbiamo davanti chiedono di uscire dai recinti #terzosettoristi. O la Riforma serve a questo o ha ragione Luigi Marino.
Nel 2009, più di sei anni fa, la Caritas in veritate di Benedetto XVI al paragrafo 46 invitava a questo coraggio: “Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. (…) Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. (…) È auspicabile che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione giuridica e fiscale. (…) È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo.”
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