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Bombardi (Caritas): «La Rotta Balcanica non si esaurisce con la crisi bosniaca»
«Focalizzando l’attenzione solo sulla Bosnia, dove la situazione - sia chiaro - è terribile», spiega Daniele Bombardi coordinatore Caritas Italiana del Sud Est Europa, «sembra che la Rotta Balcanica sia un fenomeno che riguarda poche migliaia di persone. Per comprendere la gravità di quello che sta succedendo da diversi anni nei paesi dei Balcani, dobbiamo guardare alla situazione nel suo insieme e quindi ai numeri reali: sono 4 milioni i rifugiati in Turchia, dove la rotta inizia. In Grecia sono bloccate 100mila. In Serbia ottomila e in Bosnia Erzegovina quasi 8400»
di Anna Spena
Da quando lo scorso 23 dicembre il campo profughi di Lipa, in Bosnia Erzegovina, è stato distrutto da un incendio, si è accesa l’attenzione su una delle più grandi tragedie umanitarie che si sta consumando alle porte dell’Europa. La situazione in Bosnia, soprattutto nel cantone di Una-Sana, dove sono concentrati la maggior parte dei migranti, è drammatica.
Secondo i dati di Unhcr il numero di rifugiati presenti nel Paese al 31/12/2020 era di 8391 persone, almeno tremila, non trovando posto nei campi profughi ufficiali, vivono nei boschi e negli squat, fabbriche abbandonate. É importante però non identificare tutta la questione della Rotta Balcanica con la drammatica situazione bosniaca. «Focalizzando l’attenzione solo sulla Bosnia, dove la situazione – sia chiaro – è terribile», spiega Daniele Bombardi coordinatore Caritas Italiana del Sud Est Europa, «sembra che la Rotta Balcanica sia un fenomeno che riguarda poche migliaia di persone. Per capire la gravità di quello che, non dallo scorso dicembre, ma ormai da diversi anni, succede tra i paesi dei Balcani, dobbiamo guardare alla situazione nel suo insieme e quindi ai numeri reali: sono 4 milioni i rifugiati in Turchia (dove la rotta balcanica inizia), 3,4 milioni sono siriani. In Grecia sono100mila i migranti bloccati in condizioni disumane, In Serbia ottomila e in Bosnia Erzegovina quasi 8400».
Tendenzialmente il percorso che seguono i migranti è quello di una linea retta: «Grecia, Macedonia, Serbia. Dalla Macedonia alla Serbia i migranti passano senza senza troppe difficoltà. Arrivati in Serbia i percorsi iniziano a diversificarsi. All’inizio si cercava di raggiungere l’Ungheria, ma tra il 2016 e il 2017, Orbán ha messo in piedi un sistema di difesa militare che rende impossibile superare quel confine. Qualcuno prova a raggiungere la Croazia passando per la città di Šid, ma quel confine è una zona di pianura. Quindi nella maggior parte dei casi i migranti, che sono facilmente individuabili, vengono bloccati e rispediti indietro. Altri ancora si nascondo nei camion per passare il confine, in molti viaggiano attaccati alle placche sotto i camion: stanno per ore a 40 cm dal suolo della strada, è pericolosissimo. Per questo la rotta più battuta è quella della Bosnia. C’è anche un altro percorso che sta nascendo negli ultimi mesi: dalla Grecia le persone raggiungono l’Albania e poi la città di Valona, sul mare. E da lì con una barca provano raggiunge la Puglia, un attraversamento molto pericoloso».
La Serbia, di cui poco si parla, è un punto delicatissimo della Rotta. «È relativamente facile da raggiungere», spiega Bombardi, «e gestisce un flusso migratorio molto movimentato sia in entrata che in uscita. Il numero di migranti che si trovano lì è di poco inferiore al numero che si registra in Bosnia, ma la Serbia è riuscita a mettere in piedi un sistema ordinato di gestione e di transito delle persone».
Sia chiaro quello serbo non è un modello di accoglienza ma riesce, pur con tutti i suoi limiti, a non lasciare le persone per strada. «Questo perché», aggiunge Bombardi, «dopo la crisi del sistema che si è verificata tra il 2016 e il 2017, il governo ha incaricato il KIRS, “Commissariato per i Rifugiati e gli Sfollati”, che era già stato creato negli anni Novanta per la guerra in Jugoslavia, di gestire i flussi migratori. L’ente risponde direttamente alla presidenza del consiglio ed è stato supportato dalle agenzie internazionali (Ue, Iom e Unhcr) nella realizzazione degli interventi. Quindi gradualmente si sono trovate soluzioni più sostenibili e ordinate».
«In Serbia sono stati aperti 17 campi profughi, di medie e piccole dimensioni. Anche le scelte di questo Paese sono discutibili. Ha aperto questi campi lontano dalle città in modo da non creare attriti con la popolazione locale. Ma rimane comunque un Paese al limite. Se riparte un flusso migratorio significativo, con un aumento di 2mila – 3mila persone, il sistema di accoglienza diventa ingestibile. I campi profughi sono comunque luoghi fatiscenti. E il sistema serbo, al pari degli altri, non risponde ai bisogni psicologici ed educativi delle persone. Eppure i migranti trascorrono periodi medio-lunghi nel Paese, dai 6 mesi fino anche ai 2 anni, all’interno di queste strutture prima di riuscire a proseguire. Caritas Italiana con il cofinanziamento della Conferenza Episcopale italiana sostiene la Caritas nazionale e le 4 Caritas diocesane coinvolte per offrire: supporto di emergenza (igiene, vestiario, bibite calde) nei campi di Krnjaca, Obrenovac, Zrenjanin e Bogovadja -servizi psicosociali nei campi di Krnjaca, Principovac e Bogovadja e supporto al servizio di trasporto sicuro in particolare nella zona di Subotica
La Caritas non offre solo interventi materiali, ma anche un sostegno psico-sociale, che è uno dei bisogni maggiore cui far fronte. «In collaborazione con Ipsia e Caritas Ambrosiana, attraverso anche l’apertura di un Social Cafè nel campo di Bogovadja, abbiamo creato uno spazio aggregativo attrezzato, in cui servire anche caffè e tè, ma anche sviluppare attività ricreative differenti, per le diverse fasce di età e genere (scacchi, musica, cucito, video, foto, etc.) e uno spazio aperto all’incontro tra la comunità locale e i migranti».
Credit Foto: Max Hirzel per Caritas Italiana
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