Formazione

Bologna, un referendum tra sussidiarietà e ideologia

Il 26 maggio i bolognesi sono chiamati a un referendum consultivo sui finanziamenti del Comune alle scuole dell'infanzia paritarie a gestione privata. E la questione è già diventata nazionale.

di Stefano Zamagni

Duecento maestre l’altro ieri hanno “occupato” Palazzo d’Accursio. Si sono espressi in proposito la Cei e Stefano Rodotà. Il referendum a cui il prossimo 26 maggio sono chiamati i bolognesi sta diventando sempre più una questione nazionale. Tema: i finanziamenti del Comune alle scuole dell’infanzia paritarie. Non c’è sera senza un incontro che spieghi la partita in gioco. Domani sera all’Hotel Savoy sarà la volta di Virginio Merola, sindaco di Bologna e Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà. Stefano Zamagni, che incontrerà i cittadini questa sera alla Parrocchia Santissima Annunziata, è il presidente del comitato che riunisce il fronte a favore del sistema pubblico integrato bolognese della scuola dell’infanzia, autore di un manifesto firmato da 7.472 sottoscrittori. Ecco il suo intervento pubblicato su VITA in edicola.

Il prossimo 26 maggio i bolognesi saranno chiamati a votare un referendum consultivo che chiede agli elettori come utilizzare «le risorse finanziarie comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata», se destinandole alle scuole comunali e statali, oppure alle paritarie. L’occasione è locale, ma la posta in gioco è evidentemente nazionale. Si vuole di fatto espungere il principio di sussidiarietà dalla Costituzione. L’art. 118 infatti sancisce che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale».
I referendari invocano l’articolo 33 della Costituzione, dove si dice che si possono “istituire” scuole ma «senza oneri per lo Stato».  Il testo parla di “oneri”, che è termine derivato dal latino e vuol dire “peso”, “gravame”. Quindi se ne deduce che non si possono chiedere risorse all’ente pubblico “gravandolo”. Nel caso in questione è vero però esattamente il contrario: il Comune di Bologna eroga annualmente alle scuole materne e paritarie un milione di euro, ricevendo dalle stesse un contributo in termini di posti per l’infanzia pari a sei milioni. Siamo di fronte a un caso plateale in cui è la società civile che finanzia l’ente pubblico e non il contrario.
Spesso inoltre ci si dimentica di leggere la relazione di accompagnamento a quell’articolo 33. L’interpretazione autentica venne data da Silvano Labriola e Costantino Mortati e in particolare dal liberale Epicarmo Corbino in questi termini: «Noi non diciamo che lo stato non potrà intervenire a favore degli istituti privati… si tratta della facoltà di dare o non dare». Quindi non c’è un obbligo ma neanche un “non obbligo”. E l’ente pubblico in questo caso dà un contributo, e non un finanziamento,  in quanto il buon amministratore sa che quel contributo produce un guadagno.
L’altro equivoco messo in campo dai referendari è che le scuole paritarie convenzionate non siano di fatto scuole “pubbliche”. Per arrivare a questa sentenza di basano sull’equazione «pubblico» uguale «statale». Un’equazione che evidenzia una vera carenza culturale. Scuola pubblica infatti vuol dire scuola aperta a tutti, che non fa discriminazioni di credo e che applica precisi standard di qualità. La legge 62/2000 che regola le paritarie sancisce che il sistema pubblico dell’istruzione possiede tre pilastri: quello statale, quello comunale e quello paritario. Sostenere oggi che le scuole paritarie sono private e pertanto esterne al sistema pubblico è una grave scorrettezza.
Quello dei referendari è infatti un caso lampante di eterogenesi dei fini: dicono di voler sostenere la scuola pubblica mentre invece le scavano la fossa. Tutti sanno − anche gli stessi referendari − che le risorse statali a favore delle scuole materne, e non solo, sono destinate a diminuire. Proprio per questo, il saggio amministratore cerca di siglare delle alleanze strategiche con altri soggetti della società civile per accumulare una quantità maggiore di risorse. Supponiamo che vincano i referendari e che a seguito della vittoria il Comune tolga le convenzioni alle paritarie. Queste dovranno aumentare le rette, non avendo più il contributo pari a 600 euro annui per bambino.
Aumentando le rette andranno a beneficiare i figli delle famiglie abbienti. Per contro l’ente comunale, per garantire la materna a tutti i bambini entro il tetto delle risorse disponibili, si troverebbe costretto ad abbassare la qualità. Così mentre la scuola pubblica diventerebbe una scuola per i poveri, la scuola privata sarebbe per i ricchi e tra le due si scaverebbe un abisso.
A Bologna ci sono 27 scuole paritarie, di queste 25 sono di matrice cattolica e due non cattoliche. Se fosse stato vero il contrario non ci sarebbe stato il referendum. La motivazione ideologica è dunque ispirata ad un laicismo che si sperava fosse scomparso e che invece continua a scorrere come un fiume carsico.  In un recente dibattito, un referendario ha sostenuto che la scuola di don Milani «a noi sarebbe andata bene». Gli ho fatto notare che se ci fosse stata allora la legge 62, quella di don Milani sarebbe stata certamente una scuola paritaria…
 

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