Famiglia

Bogotà, settecento fiori sbocciano nel fango

Nella città infestata da povertà e violenza, l’incredibile esperienza della Fundacion Granahorrar

di Cristina Giudici

Sorge proprio nel centro di Bogotà, la città più violenta al mondo, l?esperimento più incredibile, quasi surreale, di tolleranza ed integrazione sociale.
Si chiama Fundacion Granahorrar dal nome della banca che per prima ha sostenuto il progetto, ma il suo vero nome è flor de fango, un fiore nato nel fango di miseria, violenza e follia.
Cos?è? Un capannone di mille settecento metri quadrati dove ogni giorno 700 persone fra disabili, schizofrenici, lebbrosi, ex criminali, ex guerriglieri, ex sicari ed ex narcotrafficanti lavorano insieme per portare avanti la loro redditizia impresa, ma soprattutto per mostrare al mondo quanto lontano possano spingersi gli esseri umani se hanno la possibilità di dimostrare le loro capacità.

Malati psichici come fattorini
Ogni giorno, donne rimaste senza mani impacchettano gli estratti bancari, mentre i sordi salgono sul loro camioncino per andare ad arrampicarsi sui grattacieli della città e pulire i vetri. I malati psichici portano in giro per la città pacchi, posta e assegni e i ciechi rimangono al computer a svolgere compiti amministrativi. Tutto questo in un Paese dove si fronteggiano sette eserciti, le uniche fonti di impiego stabili sono il narcotraffico e la guerra, lo Stato non esiste più e la morte è sempre in agguato. «Nel capannone abbiamo quarantuno esempi di disabilità fisica e diciotto diverse malattie psichiche», dice ridendo la fondatrice del progetto Victoria Zuluaga. «Qui dentro ogni giorno succedono dei miracoli veri, non simbolici. Tutto ciò che appare assurdo, impossibile, inaccettabile, qui accade. Volete qualche esempio? Un padre che ha messo incinta sua figlia ed è finito in galera ora lavora con noi con la sua figlia-nipote e insieme hanno ritrovato la serenità. Un malato di Aids a cui i dottori avevano diagnosticato, tre anni fa, poche settimane di vita ora si arrampica sui vetri dei grattacieli. Il responsabile del programma di impacchettamento era un ex barbone, il mio segretario un travestito e l?amministratore della fondazione un ladro. Fino a qualche tempo fa tutti, il governo e il ministero degli Interni, temevano per la sicurezza del quartiere, ci dicevano che eravamo pazzi a pensare di mettere insieme i peggiori reietti della società. Oggi, il nostro progetto è studiato e analizzato come un fenomeno inspiegabile».

A Cartucho dettano legge i criminali
E infatti nel capannone sorto nel quartiere Cartucho, il peggiore della città, dove la legge la dettano solo le bande criminali, non ci sono porte né antifurti, ma solo, sul soffitto, i nomi e le storie di chi ha reso reale ciò che all?inizio sembrava quasi una profezia. «Non sono solo parole» aggiunge Victoria che, nel dicembre scorso, ha ricevuto il premio per l?integrazione sociale per disabili adulti e anziani dalla regina spagnola Sofia, «ma la forza dell?amore fa veramente miracoli. Noi infatti non facciamo assistenzialismo né offriamo programmi terapeutici: abbiamo solo creato una fonte di lavoro e funziona». Funziona per Alvaro che, a quindici anni, sapeva già usare mitragliette, pistole ed esplosivi e aveva imparato, come dice lui, «a rompere il mondo». «La mia vita consisteva nel rubare, vendere droga qui nel Cartucho e terrorizzare gli abitanti», dice oggi. «Quando qualcuno dei miei clienti non pagava i propri debiti li sistemavo con il ferro (le pallottole). Poi mi sono stufato, ho incontrato una donna che mi ha aperto gli occhi e sono entrato in una comunità di recupero. Ero disperato e un giorno ho cercato di suicidarmi con una pozione di veleno. Mi sono sempre chiesto perché non ce l?ho fatta a morire, finché sono arrivato qui e ho capito». Oggi Alvaro è l?amministratore della Fondazione, ha scoperto cose semplici come svegliarsi e andare a lavorare tutte le mattine, oppure a guardare con tenerezza i suoi ?dipendenti?, monchi, senza gambe, storpi e deliranti con cui, ogni giorno, tira avanti la baracca.

Nelle riunioni ognuno dice la sua
Durante le riunioni quotidiane in cui tutti insieme affrontano le esigenze dell?impresa o tracciano il bilancio del lavoro, Alvaro aspetta pazientemente che ognuno si esprima a modo proprio, scrivendo, parlando o facendo gesti, ma non ha fretta perché ha capito che ciò che avviene qui è molto, ma molto importante. «Avevo bisogno di affetto e amore» conclude, «avevo bisogno di provare a svegliarmi la mattina e sentirmi felice. Quando arriviamo alla Fondazione, ogni mattina, lasciamo fuori tutti i problemi e ci sentiamo bene. Qui dentro tutti soffrono per qualcosa, siamo dei perdenti, ma ogni giorno dimostriamo di essere meglio delle persone normali. Se penso alla prima volta in cui sono arrivato solo per rubare un computer!».

La miglior lavoratrice? È monca e usa il Pc
Bianca, invece, è monca dall?età di otto anni, quando è rimasta vittima di un incidente sul lavoro in un frantoio (a otto anni!). Oggi lavora al computer della Fondazione, usando una penna per battere sulla tastiera. «Faccio tutto con le mie due mani» racconta,«e quando qualcuno entra e mi vede lavare e pulire le cassette di sicurezza della banca, rimane allibito. A volte mi dicono anche che sono un esempio per chi ha due mani e non ha mai lavorato in vita sua!». Quest?anno le hanno dato il premio come migliore lavoratrice della Fondazione e non le pareva vero: «Per la prima volta in vita mia sono stata messa sullo stesso piano delle persone con le mani», giura lei. E poi ci sono Julia, che è stata cresciuta da un sacerdote perché la madre l?ha ?regalata? quando ha visto che assomigliava a uno scarafaggio, ed Edgar, poliomelitico, che ogni giorno porta in giro la posta. Il suo miglior amico è un non vedente, si chiama Orozco e al capannone il suo lavoro è mettere la colla sulle buste. «Non ne sbaglia mai una», ride teneramente Edgar. Anita, invece, quando è rimasta cieca è stata lasciata dal marito ed è diventata una barbona. Poi si è risposata e ogni sera va a cercare suo figlio nei vicoli del Cartucho, dove si distrugge il cervello con la colla e la cocaina. Suo figlio ha 28 anni, gli stessi della sua cecità. «Non vengo solo per aprire e chiudere le buste e prendere lo stipendio» racconta, «ma perché alla Fondazione ho scoperto, per la prima volta, che la vita non è solo sofferenza». Quando è stato seminato, il «fiore di fango» era solo uno dei tanti progetti folli in un Paese folle dove la vita e il futuro non hanno alcun valore. Oggi, sono passati sei anni e il fiore è diventato un’impresa che in alcuni periodi dell?anno dà lavoro a 2.500 persone. Gli abitanti del quartiere hanno imparato a rispettare questo luogo ?sacro? dove succedono cose imprevedibili e dalle casse della Fondazione non è mai stato rubato alcunché.

Uno spazio di provocazione
«Noi lo chiamiamo anche uno spazio di provocazione» aggiunge Victoria Zuluaga, «perché riusciamo a raggiungere obiettivi che nella nostra società sono considerati impossibili: tolleranza, convivenza e pace. Come è possibile che, mentre fuori si ammazzano, qui dentro ex guerriglieri e ex paramilitari possano sedere allo stesso tavolo per lavorare?». Leila, per esempio. Quando aveva diciotto anni è scappata da casa per unirsi ai guerriglieri della Farc (che oggi controlla quasi la metà del territorio nazionale). L?esercito le ha bombardato la casa, i gruppi paramilitari legati ai soldati le hanno sequestrato il padre e torturato la madre. Quando, una notte, dopo un attacco sferrato dall’esercito, tutti i suoi compagni sono morti e lei è riuscita a sopravvivere, ha deciso di lasciare la guerriglia e di tornare in città a crescere la figlia. Oggi non ha amici, perché sono tutti morti, tranne uno, un ex paramilitare rimasto senza gambe, che lavora con lei nella Fondazione. Ogni giorno, quando parlano lei pensa alle sue notti nei boschi, ai morti, alla violenza e dice al suo amico: «Dios, è proprio assurda questa guerra non credi?».
All’inizio Victoria Zuluaga, che lavora da sempre a favore delle vittime della violenza, ha gestito lei stessa la fondazione, seguendola passo per passo. Oggi sono loro, questo esercito di ?disgraziati? a pensare a tutto, ai rapporti con gli uffici dove vanno a fare le pulizie, a quelli con le poste da cui vanno a ritirare e a consegnare i pacchi. «Certo, ci sono anche quelli che sono pagati per fare niente» spiega ancora Victoria, «perché sono troppo malati, ma hanno l’impressione di partecipare a un grande progetto e questo li aiuta a convivere con la malattia. Ogni giorno migliorano un po?. Insomma, io stessa,durante questa esperienza, mi sono sorpresa così tante volte da arrivare a credere che ogni limite psichico o fisico si possa combattere con la volontà. Non avete idea delle cose che riescono a fare qui dentro. È un mondo magico. Magico e assurdo».

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