Formazione

Boeri: Milano ha bisogno di una scintilla

Al via Mi/Arch la tre giorni di dibattiti, visite, conferenze sull’architettura. Un vero festival che ha al suo centro il futuro di una città che deve immaginare il suo dopo Expo

di Giuseppe Frangi

Tre giorni di vera ingordigia architettonica. È Mi/Arch un festival che da oggi al 10 ottobre propone ben 80 eventi gratuiti nel Patio della Scuola di Architettura del Politecnico di Milano, un’architettura straordinaria e polivalente progettata da Vittoriano Viganò e realizzata tra il 1970 e il 1983. Mi/Arch, diretto da Stefano Boeri con il supporto di un comitato scientifico ricco e di grande livello, è arrivato alla terza edizione e propone oltre alla serie di incontri anche le consuete perlustrazioni della Milano architettonica, fatte in Vespa e guidate una da Boeri stesso (sulle tracce degli edifici di Vico Magistretti) l’altro da Cino Zucchi (sulle tracce di Asnago, Vender e Caccia Dominioni). Sabato invece il tour sarà in bus, guidato da Fulvio Irace e andrà alla scoperta delle architetture di Gio Ponti.

Mi/Arch arriva anche in un momento importante per Milano. Si chiude Expo e intanto la città continua a vivere un momento di particolare effervescenza sul piano dell’edilizia e delle novità architettoniche. A Boeri abbiamo chiesto di spiegare quali sono i temi di fondo di questa edizione.

Il titolo “Scintille di architettura” è suggestivo. Ma a una città come Milano bastano le scintille?
Assolutamente no. Il titolo lo abbiamo voluto ad indicare l’assoluta necessità che dietro la crescita quantitativa dei cantieri cresca un pensiero, una progettualità. Le scintille indicano un ruolo troppo marginalizzato del pensiero architettonico nella ripresa della Milano di oggi. Invece ci vuole più ambizione, più investimento nelle idee. I tour attraverso le grandi architetture della Milano del dopoguerra sta a suggerire un modello che in questa città è stato proposto da grandi maestri. Dobbiamo avere la forza di riprendere quel discorso.

Si parlerà dunque delle grandi questioni aperte nella Milano del Dopo Expo?
Certamente verranno proposti incontri su temi di attualità milanese. Gabriele Pasqui e Antonella Bruzzese propongono un dibattito sullo spazio pubblico di Porta Nuova. Antonello Boatti con l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci, che è anche professore al Politecnico, discuteranno invece sull’ipotesi di riapertura dei Navigli. Ci sarà anche uno spazio di confronti sul dopo Expo coordinato da Luisa Collina e Emilio Pizzi, a cui si aggiunge lo studio di Sergio Brenna che mette a confronto Milano e Londra.

Come giudica i cantieri delle nuova Milano?
Ci sono cose molto indovinate, come il complesso di Porta Nuova che ha vinto la sua scommessa non solo dal punto di vista anche della vivibilità da parte di tutti. In gran parte della città c’è stato un miglioramento delle condizioni di vivibilità. Oggi a Milano c’è maggiore trasparenza nei meccanismi decisionali. E’ una città più riconoscibile e competitiva, che d’altra parte ha ritrovato e recuperato alcuni dei suo spazi più identitari, come la Darsena. È mancata invece una capacità di immaginare e costruire luoghi che sapessero unire solidarietà e innovazioni. Qui il terzo settore è forte, ha grandi numeri, ma non siamo stati capaci di promuovere con la stessa forza con cui si cono mandati avanti i nuovi cantieri l’inventiva e l’intelligenza collettiva di Milano. La politica non mai preso davvero in considerazione la potenza creativa e intellettuale delle reti di intelligenza collettiva.

Chiude l’Expo. Anche uno come Zygmunt Bauman visitandolo si è detto colpito dalla bellezza dell’insieme. Dal punto di vista di architetto che bilancio ne fa?
Le cose più interessanti di Expo sono la concezione del Decumano e il Padiglione Zero. Lì ho visto scelte intelligenti, innovative, coerenti. Il Decumano è la concezione di uno spazio immenso, che riesce ad essere vivibile anche in situazioni un po’ estreme come quelle di queste ultime settimane. È un luogo in cui si sta bene, innovativo nelle scelte con cui è stato progettato. È un’idea nuova di spazio collettivo. Il Padiglione Zero invece è un successo per la coerenza tra la struttura e il contenuto, e per come la struttura agevola la comunicazione del contenuto a un pubblico di grandissimi numeri.

E i padiglioni?
C’è del buono anche lì. I migliori secondo me sono quelli inglese, quello cileno e ho un debole particolare per quello austriaco che ha puntato tutto sugli alberi.

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