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Bob van Dillen: “Fermare i migranti sembra ormai la priorità della nuova politica europea per lo sviluppo”

Domani a Bruxelles il Consiglio Affari Esteri approverà il nuovo Consenso sulle politiche di sviluppo, il pilastro su cui si baseranno la strategia e la realizzazione delle politiche europee di sviluppo nei prossimi anni. Tutto bene? No, sostiene Bob van Dillen di Caritas Europa. “Fermare i migranti e rimpatriarli sembra essere diventato l’obiettivo numero uno della strategia di sviluppo dell’UE”

di Joshua Massarenti

Domani si riuniranno a Bruxelles i ministri UE per lo sviluppo. Al menù, l’approvazione definitiva del nuovo Consenso europeo per lo sviluppo. Non è un documento qualsiasi quello proposto dalla Commissione europea nel novembre scorso e poi negoziato con il Consiglio (ovvero gli Stati Membri) e il Parlamento dell’Unione Europea. Il Consenso è il pilastro su cui si baseranno la strategia e la realizzazione delle politiche europee di sviluppo nei prossimi anni.

A Bruxelles si giura che il documento è allineato agli impegni sottoscritti dalla stessa UE nell’ambito dell’Agenda globale delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale, ambientale ed economico come presupposto per sradicare la povertà entro il 2030, ma non tutti ne sono così convinti. Non Bob van Dillen, che da Bruxelles scruta per Caritas Europa non solo le parole spese dalle istituzioni quando si tratta di contribuire a tirar fuori 750 milioni di persone nel mondo dalla povertà, ma anche le intenzioni presunte o reali che si celano dietro lo slogan: “L’UE, primo donatore del mondo”.

Sul Consenso van Dillen non ha dubbi: “Fermare i migranti e rimpatriarli nei loro paesi di origine sembre essere diventato l’obiettivo numero uno della cooperazione europea per lo sviluppo, prendendo in contropiede l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che considera la migrazione un motore per lo sviluppo”. In questa intervista rilasciata a Vita.it spiega il perché.

Al termine del Consiglio Affari Esteri che si terrà domani, i ministri europei incontreranno Amina Mohamed, la vice Segreteria generale delle Nazioni Unite con delega all’Agenda 2030. Se lei avesse l’opportunità di vederla prima del suo incontro con i ministri, che cosa le direbbe a proposito delle nuove linee strategiche dell’UE sullo sviluppo?

Le direi di non nascondere il suo disappunto riguardo la decisione politica dell’Unione di integrare nella strategia globale dell’UE sulla cooperazione allo sviluppo gli obiettivi che la stessa Ue si è fissata in ambito migratorio. Le ricorderei inoltre che la scelta dell’Unione Europea di sacrificare gli aiuti allo sviluppo a favore di interessi di breve termine sulla gestione dei flussi migratori coincide con la necessità di implementare il più rapidamente possibile l’Agenda 2030 e tutti i suoi obiettivi, per rispondere ai bisogni di 750 milioni di persone povere e vulnerabili. Tra loro, il 50% vive in Africa e 20 milioni di uomini, donne e bambini sono a rischio fame.

Del resto, Amina Mohammed è totalmente consapevole che in paesi come la Nigeria, siamo stati testimoni di spostamenti, anche forzati, di popolazione dovuti alla guerra, la violenza, la povertà e l’ingiustizia, ma anche l’assenza di governance e di stabilità, la siccità e le avversità climatiche. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: bambini che muiono di fame, dottori che nelle campagne non riescono a curare i malati, e decine di migliaia di rifugiati e sfollati che scappano dalle persecuzioni e dai conflitti.

Fermare i migranti e rimpatriarli nei loro paesi di origine sembra essere diventato l’obiettivo numero uno della cooperazione europea per lo sviluppo, prendendo in contropiede l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che considera la migrazione un motore per lo sviluppo.

Oggi nel mondo oltre 65 milioni di essere umani si muovono alla ricerca di un luogo sicuro per sopravvivere. La necessità di aiutare queste persone e di lottare contro le cause profonde che generano le migrazioni forzate e gli spostamenti delle popolazioni dovrebbe richiedere un minimo di dibattito e di confronto. E invece no, ormai sembra che fermare i migranti e rimpatriarli nei loro paesi di origine sia diventato l’obiettivo principale dell’UE in materia di coooperazione allo sviluppo, prendendo in contropiede l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che considera la migrazione un motore per lo sviluppo.

Qualcuno sostiene che le politiche di sviluppo non possono più ignorare la necessità di controllare le frontiere. Giusto o sbagliato?

Bisogna sapere che il controllo rafforzato delle frontiere non risolverà le cause profonde delle migrazioni forzate. La cooperazione internazionale e gli aiuti pubblici allo sviluppo non dovrebbero essere utilizzati per realizzare gli obiettivi migratori. La vocazione degli aiuti è ben diversa e devono far sì che gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs, ndr) diventino realtà promuovendo la sostenibilità a tutti i livelli, trasformazioni sociali ed economiche di lungo termine che vadano a beneficio di tutti, special modo delle comunità e i paesi più poveri del mondo.

Negli ultimi anni le politiche di esternalizzazione delle frontiere sono state sempre più associate agli sforzi forniti nella cooperazione allo sviluppo. Lo si è visto soprattutto con il Summit di La Valletta del 2015, quando gli Stati africani e l’Unione Europea hanno adottato un Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa usando i fondi degli aiuti pubblici allo sviluppo a favore di un pacchetto di misure che includono iniziative sul controllo delle frontiere. E’ ormai chiaro che gli obiettivi fissati sui flussi migratori sono ormai al cuore delle politiche di sviluppo dell’Ue.

La cooperazione internazionale e gli aiuti pubblici allo sviluppo non dovrebbero essere utilizzati per realizzare gli obiettivi migratori. La vocazione degli aiuti è ben diversa e devono far sì che gli Obiettivi di sviluppo sostenibile diventino realtà promuovendo la sostenibilità a tutti i livelli.

Questo spostamento di interessi fa sì che le risorse degli aiuti allo sviluppo sono sempre più orientate verso i paesi “produttori” di migranti. Inoltre, osserviamo un livello di pressione sempre più alto esercitato sulla condizionalità degli aiuti per costringere i paesi beneficiari a collaborare sull’agenda migratoria dell’Ue. Con la volontà di voler “massimizzare le sinergie attraverso l’uso di tutti gli strumenti e le politiche europei, incluso quelle commerciali e di sviluppo”, l’Ue minaccia di usare gli aiuti sotto determinate condizioni, che possono essere positive o negative, a seconda della partecipazione di questi paesi alla volontà dell’Europa di fermare i flussi migratori e favorire le procedure di rimpatrio. E’ una tendenza molto preoccupante, anche perché non rispetta i principi di un uso efficace degli aiuti che l’UE e i suoi Stati Membri hanno sottoscritto.

Infine, sempre negli ultimi anni abbiamo visto come in alcuni Stati membri europei una parte degli aiuti allo sviluppo destinati a sradicare la povertà e le disuguaglianze sono stati impiegati per coprire i costi per l’accoglienza dei rifugiati. Paesi come l’Italia e l’Olanda hanno prevelato tra il 25 e il 20% del budget riservato al loro Aps per coprire i costi legati al primo anno di accoglienza dei richiedenti asilo. E’ necessario aiutare i rifugiati arrivati in Europa, ma quando un paese donatore è allo stesso il principale beneficiario degli aiuti allo sviluppo, non si finisce per mettere il carro davanti ai buoi?

La Commissione europea e la società civile si sono incontrate per confrontarsi sugli orientamenti strategici del nuovo Consenso per lo sviluppo. Che tipo di impatto queste discussioni hanno avuto sul documento che verrà adottato domani?

La presidenza maltese ha facilitato un incontro tra i rappresentanti di tutti gli Stati membri (Codev) e una delegazione di Concord Europe, la piattaforma delle ong europee, di cui ho fatto parte. Durante l’incontro, ho espresso le nostre preoccupazioni sulle incoerenze politiche dell’Ue. Al termine della riunione, ci è stato detto che non era auspicabile un dibattito più ampio sull'agenda dell'UE in materia di migrazione e che il nostro contributo era stato sollecitato per “l'agenda positiva della migrazione nei paesi in via di sviluppo”, legata alla necessità di lottare contro le cause profonde dei flussi migratori.

Come prima reazione, abbiamo ribadito che non c'era bisogno di parlare delle cause fondamentali della migrazione, in quanto la migrazione non è un problema, ma piuttosto una soluzione allo sviluppo. Abbiamo invece sempre suggerito che l’Ue cambiasse la sua narrazione nell’affrontare la migrazione forzata e gli spostamenti di popolazione, e di utilizzare i fondi degli aiuti per lottare contro tutti i fattori sociali, economici, politici e ambientali che costringono le persone a muoversi altrove.

L’Ue deve cambiare la sua narrazione nell’affrontare la migrazione forzata e gli spostamenti di popolazione, e utilizzare i fondi degli aiuti per lottare contro tutti i fattori sociali, economici, politici e ambientali che costringono le persone a muoversi altrove.

La maggior parte di questi fattori costutiscono infatti una parte importante dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite, per cui attuando pienamente l'agenda, le cause delle migrazioni forzate verranno sradicate e la migrazione tornerà ad essere una cosa sicura e volontaria.

All'interno della rete di Concord Europe, abbiamo anche commentato le bozze del nuovo Consenso in aprile e scritto agli Stati membri, sia alle loro rappresentanze diplomatiche presenti a Bruxelles che nelle capitali. Ma di fronte alla nostra volontà di discutere dell’agenda migratoria dell’Ue in una dimensione più ampia, il Consiglio ci ha risposto che tale richiesta era “impossibile da soddisfare per via di un’agenda già piena”.

Si parla poco dell’implicazione della società civile africana nelle vostre campagne e attività di advocacy sulle nuove politiche migratorie e di sviluppo europee. Quanto gli africani partecipano alle vostre azioni e riflessioni?

La partecipazione è in generale molto debole. In alcuni settori come l’agricoltura la sicurezza alimentare, abbiamo collaborato per anni con molte ong e cooperative contadine africane per influire sulle politiche dell’Ue, dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite, ottenendo risultati importanti. Siamo infatti riusciti a migliorare le politiche nazionali e internazionali a favore dei piccoli produttori e dell’agricoltura familiare. Invece, sull’asse migrazione e sviluppo, la sfida sembra troppo grande e gli Stati africani non consentono alle loro organizzazioni della società civile di giocare il loro ruolo, che è quello di avere un occhio critico su quello che sta accadendo.

Di fronte alla nostra volontà di discutere dell’agenda migratoria dell’Ue in una dimensione più ampia, il Consiglio ci ha risposto che tale richiesta era “impossibile da soddisfare per via di un’agenda già piena”.

L’assenza di spazi politici disponibili per queste organizzazioni, già sottoposte a molte pressioni in tanti parti dell’Africa, sembrano più ristretti nel campo migratorio che in altre tematiche. E si vedono le conseguenze nei dialoghi tra l’Ue e l’Africa, dove la società civile africana spicca per la sua assenza. Al Summit sulle migrazioni che si è tenuto a La Valletta nel 2015, hanno partecipato soltanto due organizzazioni invitate peraltro all’ultimo minuto. L’anno successivo ne sono state invitate quattro. Al di là dei numeri, il processo di selezione dei rappresentanti africani coinvolti in questi Summit risulta opaco.

gli Stati africani non consentono alle loro organizzazioni della società civile di giocare il loro ruolo, che è quello di avere un occhio critico su quello che sta accadendo.

Ora, in vista del prossimo Vertice Africa-UE di Abidjan, verrà organizzato in luglio a Tunisi un Forum delle organizzazioni della società civile che prevede la presenza di 80 rappresentanti della società civile di entrambi i continenti. Sembra che i 40 rappresentanti africani siano stati selezionati dall'Unione Africana. Ciò non favorisce una partecipazione davvero indipendente, né alle necessarie riflessioni critiche congiunte sugli orientamenti politici attualmente in corso.

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