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Black-Blanc-Beur, game over

I francesi escono e con loro va ko il mito della squadra dell'integrazione

di Joshua Massarenti

Black-Blanc-Beur ovvero africani, bianchi e maghrebini. Un mix da cui è nata una generazione di fenomeni. Ma il giochino si è inceppato. E oggi la Nazionale, come il Paese, è spaccata fra le banlieues di Ribéry e Anelka e i borghesi alla Gourcuff Tra i nostalgici, c’è chi è rimasto ai festeggiamenti di Francia 98. Con una nazione francese in stato di grazia dopo il trionfo ai Mondiali della mitica squadra “Black-Blanc-Beur”. Nel Paese d’oltralpe, una nuova generazione di fuoriclasse, composta in parte da figli di immigrati maghrebini (i “beur”) e africani (i “black”), stava aprendo una nuova era calcistica. E sociale. Almeno così pensava l’allora presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, convinto che la vittoria dei vari Desailly, Thuram, Deschamps, Blanc e Zidane fosse diventata il simbolo di un popolo finalmente unito, in pace con se stesso e con il proprio passato coloniale. Ma la pace sociale, conquista a suon di goal, fu di breve respiro.
Prima nel 2002, con le elezioni presidenziali che vedono il leader xenofobo Jean-Marie Le Pen – lo stesso che accusò i Black-Blanc-Beur «di non rappresentare la Francia» – sconfiggere al primo turno il premier socialista Lionel Jospin. Poi con la rivolta delle banlieues – le temutissime periferie ghettizzate in cui gli eroi di Francia 98 erano diventati miti – mandate in fiamme nel 2005 dai ragazzi che vi abitavano. Nella burrasca, la Nazionale diventa l’ultimo bastione di una Francia multirazziale vincente. Un’illusione che si prolunga fino al 2006, fino a quella famosa testata di Zidane a Materazzi durante la finale dei Mondiali di Germania, e con la quale il ragazzo della periferia marsigliese di Le Castelane chiude nel più clamoroso dei modi una carriera eccezionale.
Il ritorno anticipato di Zidane negli spogliatoi dello stadio di Berlino segna l’inizio della fine per il mito Black-Blanc-Beur. Una fine che si consuma in maniera definitiva il 17 giugno scorso ai Mondiali sudafricani, guarda caso in uno spogliatoio. Nelle viscere del Peter Mokaba Stadium di Polokwane, i galletti sembrano pugili suonati. La sconfitta con il Messico (a cui è seguita quella col Sudafrica e l’addio alla competizione) suona così amara da dare il via a una serie di colpi di scena clamorosi da parte dei giocatori della nazionale. Da tempo si parlava di una squadra allo sbando, spaccata tra i bravi ragazzi di provincia da un lato (il bretone Gourcuff su tutti), e i “teppisti” delle temutissime banlieues incarnati da Ribéry, Gallas e Anelka dall’altra. «Yohann si sente a disagio in questa squadra», dirà papà Gourcuff in riferimento al figlio messo fuori rosa dall’allenatore Domenech su pressione dei “teppisti”. Hanno avuto la meglio i “teppisti”, la cui unica impresa registrata ai Mondiali sudafricani è stata quella di riprodurre nella sqaudra francese la frattura geografica e sociale che da decenni sta consumando il Paese. Nonostante la loro mediocrità, Ribéry e Anelka andrebbero anche ringraziati. Ringraziati per aver posto definitivamente fine al mito calcistico dei Black-Blanc-Beur.

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