Formazione

Birmania. Così l’umanitario dribbla il regime

Parla un'operatrice del Cesvi

di Joshua Massarenti

Essere in prima linea quando ancora nessuno parlava di Myanmar. Il Cesvi ci aveva preso l?abitudine: prima ong italiana a sbarcare nel Paese asiatico, l?ong non si è mai tirata indietro quando si trattava di prestare aiuto a un popolo schiacciato dalla povertà. Nemmeno con i riflettori massmediatici spenti. Certo che prestando maggiore attenzione al dramma della Birmania, si scopre che all?origine delle contestazioni di ottobre si cela una miseria radicata sul territorio mista a pandemie. Come la malaria che in alcune aree colpisce quasi 7 birmani su dieci. Guarda caso, queste aree sono le stesse in cui operano (77mila persone assistite in cinque province) i circa 40 operatori locali del Cesvi e tre espatriati, tra cui Silvia Facchinello.

Vita: Si è parlato molto dei monaci e poco di umanitario. Quale è la situazione?
Facchinello: Continuiamo a lavorare in condizioni molto difficili. Sia nello Shan State che nella Maladay Division l?accesso alle strutture sanitarie e all?acqua potabile rimane estremamente problematico. Nonostante il grande impegno del governo birmano, ci sono ancora molti villaggi situati in aree remote dove i servizi di assistenza sanitaria sono insufficienti. Certo, esistono piccole strutture di accoglienza, ma oltre alla scarsa formazione del personale paramedico, si pone il problema dei farmaci che non arrivano in quei villaggi. Detto questo, la nostra presenza ha fatto registrare molti progressi. Oggi l?80% della popolazione conosce appieno le cause della malaria e i metodi per prevenirla, inoltre la morbilità dei bambini con meno di 9 anni è scesa dal 25 all?8,6%.

Vita: Quali sono le condizioni di lavoro?
Facchinello: L?80% dei villaggi sono situati in zone difficilmente accessibili. Durante il periodo monsonico, i sentieri diventano impraticabili, così i nostri operatori sono costretti ad andarci a piedi, spesso impiegandoci una settimana intera.
Vita: Quali sono i metodi adottati per rapportarsi col governo?
Facchinello: La pazienza, nonché la convinzione che prima o poi le cose si fanno. Anche perché all?interno dell?amministrazione birmana ci sono molte persone competenti e disponibili. I nostri rapporti con il ministero della Salute, ad esempio, sono ottimi. Certo, non è facile. Intanto perché lo spostamento della capitale da Yangon, dove ha sede il Cesvi, a Naypyidaw rallenta parecchio l?iter burocratico. Ogni visita ai ministeri e altre autorità amministrative richiede un?autorizzazione. In dieci mesi di presenza, ho potuto recarmi a Naypyidaw soltanto una volta. I rapporti quindi si costruiscono essenzialmente via email o per telefono.

Vita: Altri ostacoli?
Facchinello: Non basta ottenere il riconoscimento ufficiale del ministero degli Esteri per svolgere operazioni umanitarie. In Myanmar, ogni progetto richiede il consenso del governo. Lo stesso discorso vale per le aree in cui si intende operare. Se poi nel corso delle attività si scopre che zone adiacenti alla tua necessitano gli stessi interventi, ancora una volta non ci si può muovere senza il consenso della controparte governativa. Il sistema vale anche nei periodi di massima urgenza umanitaria. Nel passato ci sono stati alluvioni nella Mandalay Division dove erano presenti alcune ong alle quali è stato vietato soccorrere le vittime con il pretesto che si trattava di un?attività umanitaria non prevista nel Memorandum of Understanding, cioè il documento d?intensa con il governo nel quale un?ong mette nero su bianco le attività che svolgerà nel Paese.


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