Sostenibilità

Bilancio sociale, facciamo un bilancio

Manager ed esperti a confronto con Paolo D’Anselmi: a che punto siamo in Italia? Di Christian Benna e Antonietta Nembri

di Redazione

<i>Bilanci sociali: a chi servono, a che cosa servono? Sette addetti ai lavori, impegnati da anni nelle politiche di corporate social responsability delle proprie aziende, si sono confrontati a viso aperto nella redazione di Vita. A interloquire con loro Paolo D?Anselmi, l?autore del numero di Communitas dedicato al tema. Ognuno ha messo a fuoco le proprie esperienze e le proprie idee. Ne è venuto fuori un confronto interessante. Ma anche un vissuto di chi quotidianamente si rapporta con i risvolti più concreti della csr. </i>

Paolo D?Anselmi: Siamo qui per ragionare attorno a questo numero di <i>Communitas</i> che raccoglie analisi di decine di bilanci sociali pubblicati in Italia in questi anni. Mi piacerebbe sapere da voi se lo avete ritenuto uno strumento utile. Poi, dal lavoro svolto, ho ricavato due temi sui quali incanalare il nostro dibattito. Primo tema: la filantropia non è la csr. Si tratta di due cose distinte. Eppure non posso non pormi il problema che è comune al non profit, che chiede invece alla filantropia di far parte della csr, quasi come sottocategoria. Ma mi pare che la strada sia più stretta, perché il non profit dovrebbe trovare nella csr una modalità di sviluppo. Sul fronte delle collaborazioni gli spazi invece sono più ampi. Sia con il privato che con il pubblico, il non profit può offrire soluzioni nuove, e anche di efficienza, al Welfare. Secondo tema è il rapporto con il territorio accennato da Aldo Bonomi nell?introduzione del numero. Ci sono casi interessanti di coesione inerenti al business di un?impresa e allo sviluppo di una determinata area. Ma allo stesso tempo abbondano certe attività di mecenatismo, filantropia mascherata da csr, come la sponsorizzazione ad eventi culturali o ad enti benefici. Ma si deve parlare di finanziamenti che vanno messi al passivo e non all?attivo di un bilancio sociale.

Gian Carlo Marchesini: Ben vengano gli stimoli corrosivi e sulfurei di D?Anselmi. Tuttavia nel suo libro non è mai citata la Coop. Un peccato perché un esame di coscienza, come dice lo stesso D?Anselmi, per essere serio deve fare male. Lo slogan delle imprese cooperative è che la responsabilità sociale ci è connaturata, è nel nostro dna. Una verità ma allo stesso tempo un alibi per guardare altrove. Infatti non è un caso che proprio nel 1991 abbiamo pubblicato il primo bilancio sociale, nel bel mezzo del periodo di Mani Pulite, in cui anche le coop rosse furono toccate dalle inchieste della magistratura. Da due anni facciamo il rapporto sociale di sistema. Anche qui c?è una ragione di contesto. Perché all?epoca il governo Berlusconi stava attaccando il movimento cooperativo. E quindi si decise avvedutamente di metter mano a una comunicazione migliore, mettendo in luce coerenze di un percorso, di una storia ben definita. Un rapporto sociale di sistema che nasce da una difficoltà ma che ha significato uscire da un meccanismo di autoreferenzialità di sistema molto forte. Per esempio abbiamo iniziato a confrontarci sul linguaggio della csr, che prima era composto da un vocabolario neppure uguale per tutti.

Massimo Ascani: È difficile fare delle valutazioni di impatto socio-ambientale di una grande azienda senza cadere nella banalità. Però c?è sempre un discorso di trasparenza che dovrebbe mettere in chiaro le differenze tra filantropia e forme di collaborazione. Noi abbiamo vissuto situazioni simili: al posto di sole erogazioni abbiamo cercato di fare formule miste. Andando incontro alle richieste economiche e allo stesso tempo organizzare dei corsi di fiscalità economica, per gettare davvero un ponte tra profit e non profit. Sul fronte della rendicontazione, occorre ancora fare uno sforzo per avvicinarci allo stakeholder.

Cristina Clapiz: Nella csr di tante grandi multinazionali, come McDonalds, manca ancora una vera politica di trasparenza nella rendicontazione economica che invece si traduce spesso in una vetrina per mostrare solo le cose migliori di sé. La csr che intendiamo in Autogrill si muove invece in altre direzioni: essere umili e onesti è la nostra linea guida, cercando di non andare sopra le righe. Un po? controcorrente, il nostro punto di riferimento sono le pmi che in questi anni hanno lavorato sodo per portare la csr in impresa. L?obiettivo è rendicontare in maniera più corretta e in dettagli ogni attività. Autogrill si sta muovendo da poco sul rapporto con il territorio, cercando di raccogliere le esigenze delle associazioni. Stiamo cercando di offrire servizi secondo le istanze dei consumatori. Ai nostri 800 milioni di clienti cerchiamo di offrire location e servizi adeguati. Questo è l?elemento che ci contraddistingue.

Sebastiano Renna: Csr è un territorio tematico del tutto e del contrario di tutto. Campo in cui una multinazionale alimentare, che ha sotto i cancelli i contestatori un giorno sì e l?altro pure, ha poi lanciato una linea di prodotti equo-solidali. Avventurarsi in csr è sempre molto spigoloso: come rivela lo scritto di D?Anselmi, negli ultimi anni c?è stato un approccio metonimico con la csr. Cioè si confonde una parte con il tutto. Molte volte il di- dello strumento del bilancio sociale. C?è un problema di sostanza. Molti bilanci assomigliano più a brochure di presentazione che a una vera e propria rendicontazione. Invece la csr dovrebbe essere un momento in cui l?azienda riflette su se stessa, sui meccanismi di funzionamento e la sua relazione con l?intero sistema socio economico in cui si muove. Le verità non dette del bilancio sociale sono allora verità che l?azienda non riesce dire a se stessa. La società ha invece interesse, perlomeno internamente, a pubblicare le zone d?ombra, i problemi conflittuali dei suoi processi aziendali. Capire i perché delle aree di crisi, significa avvicinarsi ad una risposta per risolverle e migliorare le proprio chance di sviluppo. Quindi lasciamo perdere il buonismo. L?etica è un fatto di lungo periodo, diceva Simone Weil. Il problema è chi è che va a verificare, chi certifica questi conti. Noi crediamo che il bilancio te lo certificano i tuoi stakeholder. Noi in Granarolo non ricorriamo a certificatori esterni ma ogni biennio facciamo un incontro con i nostri stakeholder. Mettiamo sul tavolo la nostra situazione, per discuterne i processi.

D?Anselmi: Per voi poi il rapporto con il territorio è un fattore chiave?

Renna: È cruciale, può essere un limite da superare per cercare di avere una dimensione internazionale. Oggi, avendo acquisito Yomo, dobbiamo competere con giganti come Nestlè, Danone. Quindi il discorso territorialità è fondamentale, dobbiamo capire il crinale sul quale si muove la nostra capacità competitiva rispetto alla nostra capacità di essere sostenibili e quindi mantenere intatti i presupposti con cui abbiamo messo su una filiera produttiva.

Manuela Macchi: Il numero di <i>Communitas</i> mi è piaciuto molto per l?aspetto di riflessione, ma non come analisi strutturata di bilanci sociali perché da quel punto di vista – per quello che ho letto – anch?io chiederei qualcosa di più. Anche se condivido il fatto che finalmente si esca dal tono pomposo e autoreferenziale. Chi lavora tutti i giorni sui bilanci sociali ha voglia di cose concrete: per noi, csr è anche che i bilanci sociali debbano essere soprattutto uno strumento per dialogare con gli stakeholder. Quanto alla questione del sistema degli indicatori, anche per noi il rapporto di sostenibilità vuol dire, alla fine, mettere in piedi un vero e proprio sistema di gestione, perché poi alla fine le aziende sono abituate ad avere un sistema di controlli, in particolare per quanto riguarda gli indicatori. Però sulle performance sociali le aziende sono state poco abituate a rendicontare. Questa è la grande sfida, monitorare e rendicontare. Non deve essere soltanto una cosa da fare una volta l?anno od ogni due anni in occasione della pubblicazione, ma deve diventare veramente uno strumento di controllo all?interno, per il management. Bisogna avere il coraggio di dire perché non si rendiconta qualcosa e soprattutto mettere in evidenza le cose che non vanno senza fare troppa pubblicità e comunque senza addolcire le cose negative.

Franco Malagrinò: Trovare le contraddizioni nei bilanci è facile. Si dice quello che non c?è, quasi mai si dà atto di quello che c?è. Quando Unipol o la Fiat fanno un bilancio sociale occorre che ci sia qualche giornale che faccia le pulci. Ma questo chi lo fa? Non lo fa nessuno e quindi il problema non è di chi fa il bilancio sociale, perché se poi non c?è il confronto… Noi facciamo il bilancio sociale perché serve al board dell?azienda per essere gestita meglio. Però è chiaro che lo sforzo di indipendenza, di autonomia di far scoppiare le contraddizioni non può essere in un volume per pochi ma deve essere nella stampa per molti. Non basta diffondere un bilancio sociale, bisogna reinterpretarlo e banalizzarlo in modo che tante persone possono capire la specificità di quell?impresa. Nelle scorse settimane ho ascoltato R. Edward Friedman a Bologna il quale sosteneva che la csr va ormai interpretata come responsabilità sociale verso gli stakeholder. Lo stesso inventore della csr oggi ci dice che è il momento di associare gli stakeholder a una gestione allargata dell?impresa, pur mantenendo la responsabilità del management per le scelte strategiche.

Damiano Carrara: In Italia non abbiamo mai avuto una tradizione di trasparenza ma negli ultimi anni si sono fatti passi sicuramente enormi e il bilancio sociale è un bel cambiamento di rotta. Oggi ho la sensazione che sia soprattutto uno strumento di comunicazione. E questo libro di D?Anselmi lo conferma. Oggi invece stiamo imboccando una strada diversa: considerare il bilancio sociale come uno strumento per gli addetti ai lavori. Se è uno strumento per addetti ai lavori – e mi riferisco sia alla stampa che deve mediare nei confronti del pubblico un messaggio, sia, nel nostro caso, agli investitori istituzionali – il bilancio sociale è un vero bilancio. Per esempio, nei riguardi degli investitori, che noi abbiamo individuato come nostro primo target, significa che deve essere strutturato su degli standard che permettano il confronto con i competitori. Poi però gli standard non bastano, perché ogni azienda è diversa: ognuno deve scavare al proprio interno e trovare quello che è il suo core business, stando attenti al problema delle informazioni riservate (quando come Bpu si è quotati in Borsa) e sulla riservatezza delle informazioni che fanno parte del core business dell?azienda. Questo spiega perché secondo me la certificazione è necessaria, come un?attestazione di conformità. Poi ci vuole una validazione del documento attraverso un dialogo. E ammetto che siamo abbastanza indietro in questo dialogo con gli stakeholder.

D?Anselmi: Grazie, perché questo che avete detto è molto stimolante. E merita di avere una continuazione. Voglio solo sottolineare l?enfasi messa sugli stakeholder. A questo proposito ho io una critica: quella della difesa dello stakeholder ignoto. Intorno a un tavolo ci metti il sindacato, i consumatori, il sindaco del paese, ci puoi mettere un sacco di gente, ma le generazioni future non ce le puoi mettere. Lasciamo una sedia vuota intorno al tavolo e chiediamoci se abbiamo scandagliato se si possono anche identificare nuovi stakeholder.

Renna: Siamo così all?inizio della rendicontazione di carattere sociale che io sposo in pieno l?idea che siamo ancora alla ricerca del fra Luca Pacioli della partita doppia del bilancio sociale. La metodologia non è assimilabile a quella che da 500 anni si fa sulla contabilità ordinaria. Tutti possono sostenere una posizione, sono sempre gli stakeholder, alla fine che sanzionano positivamente o negativamente le cose che fai.

Carrara: Se andiamo a vedere i bilanci degli anni 30 della nostra banca, erano dei bilanci sociali, purtroppo poi l?evoluzione delle tecniche bilancistiche e della normativa ha portato soprattutto ad asciugare il tutto e per certe imprese, vedi le banche, ha portato a realizzare dei tomi solo sugli aspetti economico-finanziari.

D?Anselmi: La certificazione: io penso sia importante certificare che ciò che è stato elaborato corrisponda alla realtà. Corrisponde a cose, come quando dici che hai un certo tasso di emissioni e lo si può verificare dal fatto che hai il bollino blu.

Ascani: Secondo me il certificatori fa qualcosa di più, mette sotto stress il sistema, uno stress positivo se va a effettuare dei controlli a campione. È uno stress positivo, lavora alla base e dà consapevolezza al gruppo di lavoro che impara a rilevare meglio.

Carrara: La certificazione ha anche il senso di dare più forza a chi all?interno dell?impresa deve estrarre dei dati, deve chiedere dei dati, perché ti legittima: tutti nell?impresa sono abituati a pensare che il certificatore sia uno spauracchio. C?è una funzione moralizzatrice del certificatore.

Malagrinò: Sono d?accordo: il certificatore e il revisore stressa te e tutta la struttura a pensare che quei dati sono dei dati veri e quindi fai passare il verbo della veridicità e della trasparenza. Ora questo è un dato che ti aiuta. Anche se non va dimenticato che un bilancio sociale è una comunicazione societaria e quindi è vincolata a tutti gli obblighi di legge. È una di quelle comunicazioni per le quali una società quotata in Borsa è tenuta a obbligo di veridicità e trasparenza.

I partecipanti:

Massimo Ascani
45 anni, torinese, laurea in Economia e commercio all?università di Roma, ha iniziato a lavorare nella cooperazione allo sviluppo per Confcooperative. Dal 2003 guida la direzione comunicazione di GlaxoSmithKline Italia ed è referente per la csr.

Damiano Carrara
47 anni, bergamasco, laurea in Economia all?università di Bergamo. Responsabile del progetto Csr Bpubanca, incarico che ha assunto dal 2001 con la creazione nel gruppo di questo profilo professionale. Redige ogni anno il bilancio sociale.

Cristina Clapiz
31 anni, di Tolmezzo (Udine), laurea in Comunicazione all?università di Trieste con la tesi Il bilancio sociale dell?Atm di Milano. Dal 2006 lavora in Autogrill, come csr specialist. Nel 2007 attiverà un percorso strutturato per gli stakeholder.

Manuela Macchi È la responsabile Sviluppo sostenibile in Holcim Italia spa per la gestione delle attività di sviluppo sostenibile e in particolare di responsabilità sociale. Redige il rapporto di sostenibilità e organizza l?employee survey.

Franco Malagrinò
52 anni, di Corigliano Calabro (CS), laureato in Scienze politiche. Dal 2003 è membro del comitato scientifico csr della Lega nazionale delle cooperative. Sul tema collabora con diverse organizzazioni sindacali delle imprese e dei lavoratori.

Gian Carlo Marchesini 63 anni, di Breganze (VC). Lavora a Roma all?Associazione nazionale cooperative di consumatori, seguendo le questioni della csr. Autore di L?impresa etica e le sue sfide (Egea Bocconi 2003). Nonno felice di un bel nipotino.

Sebastiano Renna
39 anni, laureato in Economia con master in Comunicazione d?impresa. In Granarolo dal luglio 2001, è attualmente responsabile Comunicazione e politiche di csr del gruppo. Da settembre 2006 è vice presidente di Csr Manager Networ

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