Famiglia

Bilanci sociali: se li fanno e se li cantano

Escluse banche e assicurazioni, meno dell'1% delle aziende li presenta. E chi li stila li concepisce più come documenti che come strumenti di gestione.

di Francesco Maggio

Bilanci sociali, fase due: non si è ancora aperta ma ce n?è urgente bisogno. I bilanci sociali oggi, infatti, lungi dall?essere uno strumento strategico di gestione, rischiano di diventare, in molti casi, dei meri prodotti editoriali, una sorta di brochure istituzionale, seppur più raffinata. E, inoltre, sono scritti frettolosamente e male, carenti nella definizione
degli obiettivi da raggiungere, pubblicati senza essere stati prima letti ed
eventualmente criticati dagli stakeholders. Insomma, molte aziende (ma anche enti pubblici e organizzazioni non profit) decidono di compiere il grande passo verso questo tipo di rendicontazione, solo perché è diventato di moda.
Perché è trendy, perché ritengono (a torto) che anche solo annunciare di aver intenzione di pubblicare un bilancio sociale le faccia apparire, agli occhi dell?opinione pubblica, campioni di responsabilità sociale d?impresa (con tutto quel che ne consegue, pensano, in termini di buona
reputazione).
Così non è. E prima si apre una riflessione generale su come evitare pericolose derive, meglio è per tutti. A cominciare da quelle imprese che, invece, hanno intrapreso la via della rendicontazione socio-ambientale
con molta serietà e che avvertono, con preoccupazione, il rischio di veder vanificati i propri sforzi da questa progressiva perdita di credibilità della
prassi.
A suonare un campanello d?allarme in tal senso è la società di consulenza Valdani-Vicari & Associati, che ha recentemente messo sotto la lente 80 bilanci sociali di aziende appartenenti a sei differenti comparti (servizi, utilities, non pro-fit, banche e assicurazioni, industria e pubblica amministrazione), ricavandone un giudizio complessivo piuttosto deludente: gli indicatori di performance citati riguardano appena il 60% degli stakeholders; la disponibilità di indicatori per l?ambiente si ferma al 51%; per ben il 75% del campione l?unico strumento di feedback è il questionario pubblicato alla fine del bilancio; nell?85% dei casi non viene richiamato né è presente il codice etico.
Ma a manifestare preoccupazione sono anche alcuni dei maggiori esperti del settore, come per esempio, Mario Viviani, amministratore delegato della società DTN consulenza: “Una delle principali difficoltà che oggi si incontrano leggendo un bilancio sociale risiede nell?impossibilità di riuscire a capire cosa c?è ?dietro? il documento, al processo di rendicontazione che ne è alla base. Per farlo bisognerebbe chiederlo agli stakeholders, ma questi non sempre vengono coinvolti nel processo ed ecco quindi che molte informazioni essenziali sfuggono”.
“Detto questo però”, aggiunge Viviani, “mi piace anche guardare al bicchiere mezzo pieno, e cioè alla circostanza che comunque oggi sono stati messi a punto principi e standard di rendicontazione condivisi. Inoltre, dobbiamo tener presente che siamo in un frangente di frontiera,
nel quale la responsabilità sociale d?impresa viene percepita in modo piuttosto confuso. Accettiamo quello che viene, consapevoli che man mano che aumenterà la sensibilità comune verso i temi della corporate social responsibility di pari passo crescerà lo spirito critico nel valutare un bilancio sociale”.
Sulla stessa falsariga l?opinione di Giovanni Stiz, presidente di Seneca (Social Environmental Ethical Consulting and Auditing): “Oggi è ancora molto basso il numero di aziende che decidono di redigere un bilancio sociale. Se si escludono banche e assicurazioni, siamo sotto la
soglia dell?1% ed è quindi ancora presto per poter trarre conclusioni. È vero, tuttavia, che il bilancio sociale viene sempre più visto dalle aziende come un documento e non come uno strumento di gestione. Peraltro, un documento da realizzare sulla base di documenti interni, una prassi sbagliata perché il bilancio sociale deve incidere sui processi interni mettendoli, se necessario, anche radicalmente in discussione”.
Per Mario Pellegatta, tra i fondatori della società di consulenza strategica Comunità&Impresa, il vero punto dolente è rappresentato dalla standardizzazione dei criteri: “Nel momento in cui si arrivano a definire degli standard minimi di rendicontazione, il bilancio sociale diventa un prodotto ?industrializzato?. Diverso sarebbe se gli standard fossero derivati dalle best practice internazionali. Da noi, invece, si gioca al ribasso, un ribasso che riguarda anche la sfera economica e che induce molti imprenditori a optare per bilanci confezionati ?chiavi in mano? a
basso costo piuttosto che intraprendere un cammino di stakeholder dialogue, di dialogo con i portatori di interesse, evidentemente più oneroso”.

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