Cultura

Big society, l’Italia ha molto da insegnare

I tanti punti di forza del nostro modello

di Redazione

La buona tenuta del nostro Paese di fronte alla crisi si deve a un tessuto associativo di prim’ordine. Sia sul terreno finanziario, sia su quello imprenditoriale. Ecco perché il Belpaese è pronto a raccogliere la sfida lanciata da Cameron e Obama
Il progressivo assottigliamento delle risorse pubbliche disponibili (aggravato dalla crisi finanziaria mondiale) sembra rendere ormai impossibile il mantenimento dei livelli di spesa necessari per il modello europeo del welfare state. Non è un caso che proprio oggi assistiamo alla riscoperta delle energie del civile e al trionfo dell’idea di sussidiarietà, da vezzo culturale a necessità ineludibile. Non è un caso che la scoperta del civile sia realizzata da due leader giovani, Obama e Cameron, che hanno vissuto nelle loro esperienze professionali la novità delle imprese sociali o not for profit, approfondendone limiti e potenzialità. Due leader che si trovano all’improvviso con finanze gravemente dissestate.

Due fragilità
Il progetto della big society segna un momento storico nel quale le due culture del profit e del non profit cominciano finalmente a convergere. Da una parte l’esigenza del profit di integrare sempre più questioni di responsabilità sociale ed ambientale nel proprio operato per evitare tra l’altro gravi rischi imprenditoriali (da BP a Lehman); dall’altra la chiamata ad una maggiore efficienza da parte del mondo dell’associazionismo per svolgere con passione, ma anche efficacia, il ruolo di supplenza dell’intervento pubblico. Il muro tra i due mondi crolla perché l’economico entra nel civile e il civile nell’economico.
Perché la delega alla società civile di responsabilità operative ed economiche nella gestione di settori delicati come quelli della sanità, dell’assistenza e della scuola sarebbe una soluzione ai problemi delle finanze pubbliche? Il segreto sta nei giacimenti da fonti di energia rinnovabile della società civile. Gli operatori in questi settori non sono animati solo da incentivi monetari ma anche e soprattutto da passioni ideali e motivazioni intrinseche. E tali passioni e motivazioni sono fondamentali in attività nelle quali la cura personale è elemento fondamentale consentendo di erogare servizi di qualità a costi inferiori.
Affinché i più piccoli, più idealmente motivati e più prossimi al problema da risolvere possano effettivamente fare più e meglio dello Stato, in una cornice di regole generali da esso definite, è però necessario affrontare alcuni punti deboli. Il primo è la difficoltà delle organizzazioni della società civile di attrarre capitale di rischio. La sfida per il not for profit è riuscire a capitalizzarsi evitando di pagare il prezzo della collateralità con i partiti politici o di una eccessiva dipendenza dalle strategie delle imprese profit eventualmente finanziatrici. Il secondo delicato problema è quello della gestione del lavoro. Con budget molto contenuti il rischio di “sfruttare” eccessivamente le motivazioni ideali dei lavoratori del settore è elevato. Il confine tra il sentirsi missionari o semplicemente precari sottopagati è molto tenue.

Trampolino coop
Le possibilità di successo della big society dipendono dalla ricchezza dell’eredità del passato e lo stesso shock della crisi finanziaria è stato attutito molto meglio in quei Paesi che la big society già ce l’hanno. L’Italia appare da questo punto di vista all’avanguardia per vitalità finanziaria (i crediti cooperativi, le banche popolari, le fondazioni bancarie e le banche etiche dispongono nel complesso di risorse ingenti e sono da sempre impegnate a finanziare il civile) e per molteplicità d’iniziative di imprenditorialità sociale (dalle cooperative di lavoro e consumo alle cooperative sociali, alle novità dell’equosolidale e dell’economia di comunione). Per dare solo una cifra, 12,4 milioni di occupati nel mondo cooperativo (dati Istat 2006) sono un patrimonio di partenza ed un modello a cui altri Paesi guardano con grande interesse.
Al di là delle forze attuali in campo, le opportunità del futuro dipenderanno sempre più dal contagio tra i diversi generi. E sarà l’incontro e la convergenza tra le risorse economiche del profit e il patrimonio di esperienza nelle attività di cura del not for profit a fare la differenza.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.