Welfare

Big data, slow strategy

di Flaviano Zandonai

Lo scontrino: questo sì che è un big data! Per averne conferma basta leggersi il rapporto coop sui consumi degli italiani. La miglior rappresentazione del Paese – non ce ne vogliano guru e visionari – soprattutto nella seconda parte: quella che analizza l’evoluzione dei comportamenti degli italiani guardando a cosa e anche a come consumano. Una banca dati autogenerata che si alimenta grazie al business dell’impresa. E che inoltre diventa sempre più precisa nel classificare le merci così, alla fine, le preferenze di consumo sono sempre più dettagliate. Lo sanno bene i giganti del net-capitalismo, in particolare Amazon i cui ricavi miliardari derivano anche dalla vendita dei profili di consumatori: beni acqustati e pure quelli desiderati grazie a tag e categorie.

Se questi sono big data allora vale la pena lavorarci anche per organizzazioni dove magari la relazione di scambio non è così immediata come succede alla cassa della Coop. Tutte le organizzazioni infatti producono informazioni semplicemente svolgendo la loro attività. Il primo problema è riuscire a trasformale in dati. Un caso tipico per le imprese sociali riguarda ad esempio la copertura territoriale, ovvero il modo in cui si distribuiscono gli utenti dei servizi all’interno di contesti relativamente delimitati, come nel caso dei servizi a domicilio. O, ancora, come evolve il mercato dei servizi dove il soggetto terzo pagante (tipicamente la PA) se c’è non paga il fornitore ma cofinanzia il beneficiario, utilizzando voucher o buoni servizio. Ecco proprio i voucher potrebbero essere un big data dell’impresa sociale, magari corredato dalla quota parte di risorse out of pocket che i consumatori investono per acquistare il servizio.

C’è però un secondo problema, ovvero la capacità di reazione dell’organizzazione rispetto alle informazioni generate, raccolte e pure elaborate. Una cosa non facile perché i big data di quest’epoca chiamano in causa non decisioni incrementali, ma veri e propri cambi di strategia che devono essere realizzati in tempi brevi. Il rapporto Coop è emblematico da questo punto di vista: certifica, ad esempio, l’irruzione della dimensione “sharing” nei consumi (mobilità, ma non solo) rispetto alla quale il modello di business del supermercato tradizionale appare inadeguato.

Le indicazioni possono essere molto puntuali. Basta guardare ai grafici che riassumono l’andamento dei consumi “etici”, quelli cioè che incorporano valore sociale e ambientale. I dati dicono non solo che l’acquisto di questi beni è in crescita, ma informano i produttori rispetto a due importanti trend. Il primo è che la causa sociale vale tanto quale la qualità intrinseca del prodotto. Il secondo che il prezzo vale tanto quanto la reperibilità del prodotto. Insomma non solo abbassare il prezzo (se possibile) ma lavorare anche sulle reti di vendita. Insistere sul valore del sociale, ma anche sulla qualità produttiva. Indicazioni non da poco che sollecitano fortemente la disposizione al cambiamento.

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