Cultura

Bibbiano, il dovere di chiederci “come è possibile?”

È la domanda che tutti ci siamo fatti, leggendo la cronaca e le accuse di questi giorni. È la domanda che ci porta al di là della vicenda giudiziaria, rispetto a cui non abbiamo strumenti per dire alcunché. La domanda ci porta dritti ai buchi del sistema e alle responsabilità condivise. Gianmario Gazzi, presidente dell'ordine degli assistenti sociali: «Ci vorrebbe l’onestà intellettuale di dire che i bambini negli ultimi trent’anni ce li siamo dimenticati»

di Sara De Carli

“Non è il sistema dei servizi sociali sotto esame, ma le persone attinte dalla misura”, aveva detto subito, ieri, il procuratore capo di Reggio Emilia, Marco Mescolin. E anche “non credo ci sia copertura [da parte della politica, ndr]. Il sindaco arrestato risponde solo in merito alla presunta violazione delle normative degli appalti. Non ha accuse in concorso con le violenze ai bambini”. Sui social invece il processo mediatico sul caso Bibbiano è già chiuso ed è andato esattamente su questi due punti. In un un certo senso, si potrebbe dire per fortuna. Perché dei bambini meno si scrive meglio è. Già troppa la sofferenza accumulata. Per loro ci deve essere solo verità, giustizia, supporto. In tempi rapidissimi.

Gianmario Gazzi è il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali. Nel caso specifico non vuole e non può entrare, lo lasciamo come è ovvio che sia alla magistratura, ma non elude la domanda che tutti – leggendo – ci siamo fatti. Davvero è possibile che sia accaduto tutto questo? Come è possibile?

È una domanda un po’ diretta, ma leggendo le accuse va fatta: com’è possibile che ci sia questo strapotere degli assistenti sociali e che una loro relazione basti a convincere il giudice ad allontanare un bambino dalla sua famiglia?
In verità non c’è nessuno strapotere. Quello che porta all’allontanamento di un minore dal proprio nucleo famigliare è un processo complesso, che fra l’altro viene disposto dal Tribunale per i Minorenni, non dagli assistenti sociali né dai servizi. Anche il famoso articolo 403 per cui di fronte a un imminente pericolo per il minore è il sindaco che decide il collocamento in struttura… viene utilizzato prevalentemente per i casi in cui c’è un minore solo per strada, a cui deve essere data tutela nell’immediato. E comunque anche in quel caso deve essere confermato dal Tribunale per i Minorenni. Quindi la prima cosa che vorrei sottolineare è che ci sono sistemi che governano le scelte. Lo strapotere dei servizi sociali è un mito, io continuo a dirlo, dovuto credo al fatto che noi siamo quelli che eseguono il collocamento in struttura che il Tribunale ha disposto: le famiglie vedono noi. Di contro a questa narrazione collettiva, per cui il servizi sociali sono quelli che “arrivano e portano via il bambino”, i numeri in realtà dicono – faccio riferimento alla più recente ricerca comparativa europea – che in Italia ci sono 3 minori su mille fuori famiglia, mentre in Francia sono 9 su mille, tre volte tanto, in Germania 8 su mille e 6 su mille in Gran Bretagna. Quindi allontaniamo troppo o troppo poco? È un tema. Anche perché sulla scia di altri casi di cronaca l’accusa che ci viene mossa è quella opposta a quella di oggi, ovvero che il minore non è stato allontanato…

E lo può dire un numero, se gli allontanamenti sono troppi o troppo pochi?
La leggi, le convenzioni internazionali, la scienza, il mandato professionale e anche il buon senso ci dicono che l’allontanamento è l’estrama ratio, che è preventivo e che viene fatto nell’interesse del minore. È il minore – e su questo però occorre essere fermi – la parte fragile, la parte da tutelare. Chi viola questo – che sia medico, assistente sociale o psicoterapeuta – ha compiuto un reato. Detto questo però, se i numeri sono numeri, è un dato di fatto che in Italia si allontana meno che in altri Paesi simili a noi. E ricordiamo pure che l’OMS dice che circa 80mila bambini in Italia sono vittime di abuso e maltrattamenti, prevalentemente in famiglia. Partiamo da questo. E poi chiediamoci quali strumenti i professionisti hanno per ridurre i rischi.

Rischi di errori o peggio – come sembrerebbe in questo caso – rischi di sistematica e intenzionale manomissione della realtà. Possibile che un lavoro così delicato si svolga di fatto senza controlli?
La prima cosa che vorrei dire è che se l’allontanamento è l’ultimo strumento della filiera, significa che prima deve esserci una filiera. Oggi sembra che tutti siano esperti di servizi per minorenni, ma in questo Paese si parla delle esigenze dei minorenni solo quando arriviamo a queste situazioni limite, come questa o Manduria o la paranza dei bambini. C’è invece anche una responsabilità collettiva che deriva dai tagli a tutti i servizi. Le colleghe di Roma ad esempio mi dicevano ancora oggi che ci sono due anni di lista d’attesa per una visita in neuropsichiatria infantile. E che il Comune sta per assumere 170 assistenti sociali in base a quel potenziamento dei servizi che era stato previsto dal REI: 170 assunzioni significa che ad oggi ci sono stati buchi d’organico enormi. C’è – lo sappiamo – una situazioni molto delicata che è l’esternalizzazione dei servizi, che abbiamo denunciato tantissime volte non perché siamo statalisti o contro il Terzo settore ma perché di fatto interi pezzi di servizi pubblici sono stati appaltati con gare al massimo ribasso. È evidente che la discontinuità crea un danno per i ragazzini e per le famiglie, perché quale relazione fiduciaria posso costruire se l’assistente sociale ogni 5 mesi cambia? Non posso ogni 5 mesi ripartire da zero… Ma anche rispetto al tema del controllo, se l’operatore cambia continuamente, chi ha la possibilità di verificare se il progetto posto in essere sta funzionando o no? Un altro tema generale che crea queste situazioni è il lavorare in un sistema che non sempre è adatto ai tempi: la legge sull’affido e le adozioni è del 2001, ma in questi 20 anni è cambiato il mondo. Se non capiamo tutto questo, non possiamo affrontare davvero il tema, al di là degli aspetti giudiziari. Uno se lo deve domandare: “perché è successo questo?”. Esiste la responsabilità di ognuno di noi. Il giudice non prende la sua decisione solo sulla base della relazione del servizio sociale, c’è una procura che indaga, c’è una scuola, ci sono i pediatri, le neuropsichiatrie, gli psicologi… il compito del giudice è fare sintesi e prendere una decisione.

C’è una differenza tra piccoli Comuni e grandi Comuni? È possibile che l’operato dei servizi sociali nei Comuni piccoli sia meno controllato?
Ogni regione ha sua normativa sui servizi sociali, non sono tutte uguali. È chiaro che dove le dimensioni sono più piccole, la scelta migliore è la strutturazione di un ambito, come prevede la legge 328. L’impatto dei tagli e la crisi ha spinto chi aveva meno risorse ad esternalizzare di più e i più grossi a fare economie di scala. Sui controlli in materia di affidamento dei servizi però la competenza è della Corte dei Conti. Sappiamo tutti che il tema dell’esternalizzazione è complicato anche dal fatto che ci sono realtà dove non c’è un Terzo settore sviluppato, che ti permette di mettere a gara più realtà: quindi finisce che i consorzi sono sempre quei due o tre, che gestiscono quasi tutti i servizi. Ma è “colpa” del Comune il fatto che ci sia poca offerta? Quello che voglio dire è che è un po’ troppo facile oggi dare tutte le colpe su chi è in prima linea: le responsabilità sono di molti, ci sono enti locali e cooperative che non autorizzano gli assistenti sociali a fare formazione e se fa un giro per l’Italia vedrà come solo alcuni territori virtuosi fanno supervisione. Ci vorrebbe l’onestà intellettuale di dire che i bambini negli ultimi trent’anni ce li siamo dimenticati, con l’idea che la spesa per questi servizi fosse spesa corrente mentre al contrario è una spesa di investimento.

È un po’ scontato che l’ordine degli assistenti sociali difenda i suoi iscritti. Perché oggi in molti sottolineano con sconcerto anche questo, che si sia più preoccupati di difendere le categorie professionali che i bambini che ne sono stati vittime.
I bambini vanno difesi. Mi attanaglia dal primo momento, personalmente: come difendiamo questi ragazzini, se è andata così? È un lavoro complesso, che va accompagnato. Stiamo anche molto attenti nella discussione: parliamo di eventuali reati, delle organizzazioni, dei servizi, delle responsabilità… parliamo di tutto ma non di ciò che racconta le singole vite e che potrebbe rendere riconoscibili questi ragazzi, per favore. Detto questo, mi lasci dire che sbaglia a pensare che l’ordine sia un sindacato di categoria. Non lo è. Il fatto è che non si va mai oltre la famosa frase sulla tutela della professione: no, l’ordine tutela la professione correttamente esercitata.

Ma come può un cittadino segnalare quello che ritiene essere un errore da parte dei servizi sociali? Che strumenti ha? Qual è il sistema di controllo su uno sbaglio?
Noi abbiamo la funzione disciplinare, l’ordine può dire che io da domani non sono più un assistente sociale. I cittadini e le istituzioni denunciano all’ordine e l’ordine ha l’obbligo di trasmettere la segnalazione ai consigli di disciplina territoriale, i cui componenti sono professionisti indipendenti: per intenderci, non li sceglie l’ordine, ma il presidente del tribunale. Abbiamo fatto sospensioni e radiazioni e c’è un albo unico dove sono segnalate le sanzioni.

Una circostanza che colpisce molto è che tornano i nomi di professionisti già legati all’inchiesta giornalistica “Veleno”, di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, che ha portato alla riapertura di casi di molti anni fa. Perché questi professionisti esercitano ancora?
Giro io la domanda a lei: qualcuno di quei professionisti è stato condannato? I processi si fanno nelle aule dei tribunali, non sui giornali. Io sono perché la giustizia funzioni e il mio dire si arrivi presto alla verità in tribunale non è retorico, perché altrimenti tutti possiamo dire tante cose. E credo che questo non sia giusto.

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