Welfare

Biagio e i detenuti

Musica Il cantante accetta l’invito di Benzi e si esibisce nel penitenziario di Napoli

di Cristina Giudici

A ccovacciato per leggere la scaletta improvvisata. In piedi per fare da cantastorie mentre la musica esplode. Seduto per terra per tenere la mano a Leda, la piccola albanese, che racconta la sua tragedia. L?abbiamo visto così, Biagio Antonacci, mentre qualche settimana fa cantava per i detenuti del carcere di massima sicurezza di Secondigliano, a Napoli.
Non è stata la sua prima volta, già due anni fa era entrato a Rebibbia, al femminile, e da allora non aveva mai smesso di pensarci. «Perciò quando Don Benzi mi ha chiesto di venire qui a cantare, non ho avuto esitazioni. Mi sono sentito provocato, anche perché l?amore è una provocazione e per un artista suonare dove la musica non può entrare è una grande occasione», ci dice Biagio.
Alto e magro, con il volto di uno che ha già navigato a lungo, capelli sciolti sulle spalle e un?aria da randagio, Biagio Antonacci, 32 anni, è l?interprete della musica ?impegnata? nella lotta contro la droga. Il suo leader spirituale è don Piero Gelmini con cui quattro anni fa si è recato in Bolivia per un concerto contro i narcotrafficanti davanti a 20 mila persone. Un concerto che ha dato frutti insperati: sono già centinaia i bambini boliviani adottati a distanza grazie anche alla sua opera di sensibilizzazione. «Basta col silenzio, basta con la malattia che fa morire d?amore… finisci di farti del male, non è il tuo ultimo giorno di sole…». Si, l?abbiamo visto proprio così, Biagio Antonacci, mentre faceva surriscaldare gli animi esasperati dalla detenzione e dietro le transenne una muraglia umana di oltre 600 detenuti avanzava verso il palco improvvisato nella palestra del carcere.
Sì, perchè Biagio potrebbe essere uno di loro che è riuscito a realizzarsi. Viene da Rozzano, periferia sud di Milano, dove più di una generazione si è spenta fra la nebbia, la droga e l?Aids. E Antonacci sa trasformare la sofferenza in poesia.
Nel suo ultimo disco, il Mucchio, registrato nel ?96 (nel suo gruppo c’è anche l?ex batterista dei Simple Minds, Mel Gaynor) , ha scritto sia testi che musiche.
«Non esiste una musica impegnata e una non impegnata», spiega con tranquillità, «la musica lancia dei messaggi semplicemente perché racconta la vita, le storie delle persone e lascia sempre qualcosa, altrimenti non è arte. Quanto a me, con le mie canzoni mi sono sempre schierato soprattutto contro la legalizzazione della droga».
L?abbiamo visto, così, muovendosi a suo agio di fronte a quelle transenne a cui ha raccontato ?dove il cielo è più sereno?, la storia di Adriano, il suo amico che aveva un negozio di dischi a Rozzano ed è morto di Aids. L?abbiamo visto mentre si fermava e, tutto a un tratto, faceva entrare la piccola Leda, una giovane albanese che è stata punita dal racket della prostituzione e oggi è paraplegica.
«Ho perso anch?io tanti amici», ci ha detto, «forse anche per questo canto. Come dice Vasco Rossi, le canzoni nascono già con le parole. Qualcuno dice che le parole mi nascono dal cuore, ma credo che vengano da sole perché scrivo solo quello che sento».
Durante il concerto, Biagio ?il comunicatore? li teneva a bada tutti, detenuti ed agenti. Con i detenuti che cantavano all?unisono e lui che si inginocchiava e si rialzava urlando, alimentando la tensione, ma anche la commozione. Con i detenuti che urlavano, poi tacevano e quasi piangevano, quando Biagio lasciava il microfono a Stefano Goffi, che raccontava della prigionia e dell?Aids. «La canzone è come la poesia, deve saper captare le emozioni e saper restituire i sentimenti , e chi ti ascolta deve sentirsi capito ed interpretato». Poi il suo pezzo forte, ?Liberatemi?, e 600 detenuti a far da coro: «Liberateci».
«Neanch?io mi sento libero, perché mi sento sequestrato dal dolore degli altri, la loro prigionia» conclude Biagio. «Quando sono entrato qui dentro ho sentito una grande paura, poi ho provato molta serenità, quando ho visto lo sguardo di speranza negli occhi di un detenuto».

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