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Berlusconi-Fini, lo strappo finale?

Clamorosa ma non inattesa rottura tra i fondatori del Pdl

di Franco Bomprezzi

Berlusconi e Fini si riprendono la scena, lo psicodramma della loro litigata di ieri riempie le prime pagine dei quotidiani, e la politica italiana vive una nuova fase di incertezza. Ma entro 48 ore si saprà se è vero strappo, o si va verso un nuovo rammendo.

Molto secco il titolo del CORRIERE DELLA SERA: “Fini e Berlusconi alla rottura”. All’interno i servizi arrivano a pag 6. Il presidente della Camera ha chiesto al premier un cambio di rotta nel rapporto con la Lega altrimenti «gruppi autonomi». Il gelo di Berlusconi. Schifani: se maggioranza divisa, si vota. Questa in sintesi la situazione. Sempre in prima pagina sulla questione interviene il politologo Ernesto Galli della Loggia (“La separazione del delfino”). Significativo il passaggio finale: «va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell’università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra». Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C’è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua». Sempre in prima anche il parere del notista Massimo Franco (“L’indifferenza del Cavaliere che ha scelto l’asse con Bossi”): «L’asse è diventato così vistoso da dare corpo ad una diarchìa nella quale la Lega rivendica il ruolo di vincitore; ed il centrodestra sembra indifferente al pungolo del presidente della Camera. Il suo scarto appare dunque come il tentativo estremo, e probabilmente fuori tempo massimo, di spezzare una dinamica non creata ma certificata dal voto. Il riserbo iniziale ostentato dai due commensali aveva già alimentato molti sospetti; la dichiarazione ufficiale resa nel pomeriggio da Fini li ha rafforzati. Quando ricorda che il Pdl deve avere «piena coscienza di essere un grande partito nazionale», l’ex capo di An polemizza con i «diarchi»: in particolare con i cedimenti che a suo avviso Berlusconi colleziona per placare il protagonismo del «padano» Bossi. Le sue parole lasciano intuire una richiesta di ruolo e di spazio nel Pdl, che un anno di partito unico ha brutalmente ridimensionato. E rilanciano l’idea dell’«altro centrodestra», coltivato in modo sempre più solitario da Fini; e reso evanescente dall’esito delle regionali».  Francesco Verderami alle pagine 2 e 3 ricostruisce il vertice  fra i due cofondatori in “le ultime accuse (di Fini a Berlusconi, ndr): hai comprato gli Ex di An. E la Lega ricatta”, mentre Marco Galluzzo mette a fuoco lo stato d’animo del premier: “Lo sfogo del cavaliere: se va finisce l’incubo e lo seguono in 7 o 8”. Fra di loro probabilmente non ci sarebbe il ministro Altero Matteoli, un tempo vicinissimo all’ex leader di An, che ora dice: “No, Gianfranco. Io nel Pdl ci sto bene”.

LA REPUBBLICA apre sulla politica: “Berlusconi-Fini, è rottura”. Nel retroscena (“Silvio, io non sto al traino di Bossi”), Francesco Bei ricostruisce la giornata: «Berlusconi alza la voce, sbatte due volte i pugni sul tavolo. Ma Fini torna alla carica. Freddo: “Io pongo problemi perché desidero che il governo lavori meglio, che la tua maggioranza sia più forte”. In concreto, cosa chiede? Molto ruota intorno al ruolo debordante della Lega, a quella che Fini considera la sudditanza del Pdl rispetto a Bossi. La risposta del Cavaliere, anziché tranquillizzare il presidente della Camera, lo rafforza nella sua determinazione: “Gianfranco, la Lega siamo noi, con Bossi siamo amici, garantisco io per lui”. Finito il pranzo, Fini racconta ai suoi di non essere stupito dalla concezione dei rapporti politici di Berlusconi: “Non gliene faccio una colpa, sono categorie politiche che non possiede. È come se io parlassi in italiano e lui mi rispondesse in russo”» (…) Anche la condizione del Pdl viene gettata sul tavolo, insieme alla politica sociale del governo “che non esiste”, la politica istituzionale “che deve essere più equilibrata”, la politica economica, che “nemmeno tu conosci, perché Tremonti non ne parla con nessuno”. “Ma ti rendi conto dello stato del partito al Sud??”, chiede Fini. E il premier: “Cosa dici? Al Sud abbiamo vinto!”. Fini, di rimando: “Serve un Pdl nazionale che non sia al traino della Lega, che sia attento alla coesione del Sud”. L’altra richiesta è quella di azzerare tutti gli organigrammi, per tornare al rispetto di quel 70-30 pattuito all’inizio». Il commento è affidato a Massimo Giannini, “Consenso senza politica”: «Il confronto-scontro tra il fondatore e il co-fondatore del Pdl sancisce ciò che era evidente fin dalla nascita della loro “creatura”. Una visione inconciliabile della politica: populista e plebiscitaria per Berlusconi, pluralista e legalitaria per Fini. Un’idea incompatibile della destra: radicale e tecnicamente sediziosa per Berlusconi, laica e costituzionalmente repubblicana per Fini. Questa irriducibile distanza tra i due, emersa con assoluta chiarezza al congresso fondativo del partito, non si è mai colmata in questi lunghi mesi di “coabitazione”. (…) Nel centrodestra berlusconiano non ha mai avuto diritto di cittadinanza una concezione “altra”, rispetto a quella autoritaria e cesarista del Cavaliere. Ora questa “alterità”, per la prima volta, trova un luogo fisico, e politico, nel quale esprimersi. Con quali effetti destabilizzanti, per la maggioranza e per il governo, è facile immaginare. Anche al di là della portata numerica della “divisione” finiana in Parlamento (…) La “corazzata” di Berlusconi fa acqua da tutte le parti, e naviga a vista in mezzo agli scogli. Ha il consenso, ma non ha più una politica. Solo un Pd irresoluto e irresponsabile poteva pensare di offrirgli una sponda sulle riforme, rimettendo persino in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale. Non si capisce cosa ci sia di così “dolce” a naufragare in questo mare».

IL GIORNALE dedica al caso della rottura tra Berlusconi e Fini 5 pagine. Il titolo d’apertura “Fini se ne va, meglio così”. L’editoriale è di Vittorio Feltri. La posizione del quotidiano è ben spiegata da Vittorio Macioce nel suo “Fini alza il tiro ma ha la pistola scarica” «La colpa è sempre del solito cerino. Chi lo spegne? Lo scenario è Montecitorio. Fini come al solito saluta Berlusconi e presenta la sua lista di lamentele. Non va bene il partito. Non va bene la Lega. Non va bene il tonno. Non va bene che noi cerchiamo soluzioni per far nascere la terza Repubblica e Calderoli si presenta alla festa di Cota, tra ballerini e karaoke, con una bozza di riforme scritta su un tovagliolo di carta e tu, Berlusconi, prendi e porti a casa. Non va bene che io, Fini, non so mai nulla. Non va bene il Giornale. Non va bene niente. E qui arriva il cerino acceso. Gianfranco dice a Silvio: se non si cambia faccio un gruppo parlamentare tutto mio. Questa volta Berlusconi ascolta e risponde: fai pure. Il messaggio è chiaro: il cerino, se davvero vuoi, spegnilo tu. Non resta che aspettare. Fini spegnerà il cerino o lascerà che si spenga lentamente? La notizia è che il gruppo parlamentare autonomo si sta materializzando. Si chiamerà, sembra, Pdl Italia e Italo Bocchino parla di 50 deputati e 18 senatori. Ma forse è ancora troppo presto per fare i conti. Tutto questo visto da lontano è perlomeno un po’ stravagante». Ma il punto della questione è «a cosa serve un altro gruppo parlamentare? È, o dovrebbe essere una spina nel fianco. È un gruppo di pressione. È un modo per ricordare a Berlusconi: attento che ti facciamo cadere. Ma c’è da capire se la «pistola puntata», questa sorta di promemoria armato, è caricata a salve o se chi la impugna fa sul serio. Il sospetto è che si tratti di una «minaccia fredda», un deterrente, con la speranza di non dover mai premere il grilletto. La speranza dei finiani, in questo strano Parlamento, è che «Pdl Italia» sia un pezzo di maggioranza che gioca anche un po’ a fare l’opposizione. È una strategia di confine. Ai suoi uomini ha detto: “Ho fondato un partito, sono pronto a rifondarne un altro. Se l’unico modo di ottenere le cose è fare come la Lega, allora anche noi ci travestiamo da lupi. Saremo una forza di lotta e di governo”. L’importante è non far cadere davvero il governo. Questo a Fini ancora non conviene. Primo. Non vuole assumersi lui questa responsabilità. Non vuole spegnere il famoso cerino. Il presidente della Camera sa che, senza un vero casus belli, finirebbe per passare come il disfattista, lo sfasciagoverni. Non è il modo migliore per presentarsi agli elettori. Non solo. Non può essere lui, che indossa da tempo il vestito di riformatore, a castrare nella culla la stagione delle riforme. Quindi? Ci vuole tempo e pazienza. Il gruppo parlamentare è un incubatore. L’obiettivo è segnare la distanza dal Pdl numero uno. Questo è un fattore importante. Fini, da anni, prova un fastidio estetico e culturale verso il berlusconismo. Non ci sono solo ragioni politiche. Il ruolo della Lega, l’immigrazione, la bioetica sono questioni dove si può trovare, magari battendo i pugni, un compromesso. Qui c’è qualcosa di più. Si è rotto il rapporto umano. Fini non si riconosce nel Pdl come non si riconosceva più in An. Non gli piace lo stile. Non sopporta i compagni di viaggio. Fa capire che non vuole avere nulla a che fare con la maggior parte dei vecchi colonnelli. In qualche modo si sente più vicino a un D’Alema o a un Casini. È l’imprinting di una politica pre-berlusconiana. È l’antipatia viscerale per il “meno male che Silvio c’è”. Solo che la scommessa di Fini non è facile. E anche lui teme il grande salto. Il gruppo parlamentare, in fondo, non è un divorzio. Ma è la scelta di chi vuole il divorzio ma resta a vivere nella stessa casa, con i letti separati. È un temporeggiare in attesa di risistemare la propria vita e forse un modo per non essere accusato di abbandono del tetto coniugale. “Non siamo noi i traditori del patto. Ma sono stanco di essere preso in giro, Berlusconi è venuto da me per fare retorica”. Fini farà il suo partito? Dipende. La strategia del gruppo parlamentare funziona solo se l’ex leader di An resta presidente della Camera. Altrimenti dovrà andare via di casa. Sono mesi che sta lavorando a un’ipotesi di partito. È un paracadute. È un’ipotesi, ma il progetto esiste. È il partito delle riforme, con i finiani, gli ex Forza Italia del Nord costretti a cedere il passo, soprattutto in Veneto e Piemonte, ai leghisti, i soliti centrini in fibrillazione e qualche naufrago della sinistra. A quel punto Fini dovrebbe andare davanti agli elettori e incrociare le dita. I sondaggi, qui e adesso, lo danno battuto. Non gli resta che farsi un futuro.

La crisi Berlusconi – Fini è il tema di apertura de IL MANIFESTO che sceglie la foto del primo congresso del Pdl a Roma con i due cofondatori vicini sovrastata dal titolo «Finisterre». «Ultimatum di 48 ore per decidere se il matrimonio è finito. Il gioco al rialzo della Lega terremota il Pdl di Fini e Berlusconi e il pranzo chiarificatore tra i due finisce a torte in faccia. Il presidente della camera minaccia: “Faccio gruppi autonomi”. Il premier lo sfida: “Così sei fuori dal partito”» riassume il richiamo in prima che rimanda alle due pagine dedicate al tema. Sempre in prima Micaela Bongi firma il commento: «Fini – Berlusconi cofondatori allo sbaraglio» che si apre osservando: «Questa volta non vengono pronunciate nemmeno le parole di circostanza, le rassicurazioni di rito utili a sancire una tregua in realtà sempre rinviata al prossimo incontro. La nuova scadenza è fissata solo per arrivare alla conclusione che, comunque vada, il partito celebrato un anno fa sulle note Meno male che Silvio c’è è una storia conclusa (…)». Il seguito dell’articolo è l’apertura delle due pagine dedicate al tema «Il ruggito del delfino Adesso il Pdl è finito». Prosegue Macaela Bongi: «(…) Che la tensione sia oltre il livello di guardia lo conferma il presidente del senato Schifani. Che ancora una volta appropriandosi di prerogative non sue, pronuncia la minaccia sempre ventilata dal leader di Arcore nei momenti difficili: “Quando una maggioranza si divide non resta che dare la parola agli elettori” (…)» e conclude «(…) il premier e fondatore, il leader che non vuole scendere dal predellino, di fronte ai suoi non mostra cedimenti: quelle del presidente della camera “sono richieste palesemente inaccettabili, vuole mettere bocca su tutto, vuole rompere ma io non mi faccio ricattare, nel partito non c’è niente da discutere, faccia pure i suo gruppo”. Perché non si stanca di ripetere Silvio Berlusconi, “la gente è con me”». In un box anche la posizione del Pd con Bersani che sulla minaccia di Berlusconi a Fini di dover abbandonare lo scanno di Montecitorio afferma: «La camera non è nella sua disponibilità». 
 
Editoriale, lancio in prima e ben tre pagine dedicate dal SOLE 24 ORE all’incontro-strappo fra Gianfranco Fini, presidente della Camera, e il premier Silvio Berlusconi. Sul tavolo i noti problemi degli ex-An, o meglio i “finiani”, all’interno del Pdl. Il numero uno della Camera chiede maggiore peso politico per quella parte del partito che non si riconosce nella visione politica della Lega. Lega che sembra alleato privilegiato di Berlusconi tale da dettare tempi, modalità e incarichi. “Prima che sia troppo tardi”. Sembra questo il motto che ha spinto Fini a minacciare gruppi autonomi al Senato e alla Camera. Ha bisogno di visibilità. Stefano Folli, al proposito stigmatizza vantaggi e pericoli di entrambe le scelte: scissione sì, scissione no, scissione hard o scissione soft. Mentre dal presidente del Senato, Renato Schifani, arriva un primo “avviso ai litiganti”: se la maggioranza è divisa si torni alle elezioni. E’ di nuovo Folli  a chiosare la seconda carica dello Stato: se una riappacificazione non sarà possibile «rassegniamoci al peggio. Ma in questo caso la classe politica, anziché rivolgersi di nuovo agli elettori, dovrà prima o poi chieder loro scusa».

ITALIA OGGI dedica due pezzi alla strappo Fini-Berlusconi: un editoriale di Pierluigi Magnaschi “Berlusconi e Fini sono due separati in casa” e un approfondimento “Berlusconi- Fini, esplode il Pdl“,  pubblicato nella sezione Primo Piano.  Entrambi gli articoli, oltre a sottolineare la convivenza forzata tra i due leader, ipotizzano il numero di senatori e di deputati che resterebbero con Fini o con il Premier. Il pezzo di approfondimento, a differenza dell’editoriale, fa i nomi dei potenziali traslocati. L’editoriale invece, si sbilancia e azzarda questa previsione:«Se avvenisse la rottura, quindi Berlusconi, mentre stava innescando la quinta marcia del processo riformatore che sono ad ora è rimasto a bagnomaria, si vedrebbe infragilire la sua maggioranza ed avrebbe contro chi governa il calendario dei lavori alla camera. Ecco perché strepita ma poi esita». Brillante la vignetta in prima pagina che dipinge Fini e Berlusconi che si danno la mano con i piedi.

Fascetta rossa in prima pagina con l’occhiello «Alta tensione dopo l’incontro con Berlusconi» su AVVENIRE, che titola un “Lo strappo di Fini”. La cronaca all’interno, accanto a una nuova pagina sulle mire leghiste alle banche del Nord: la pagina su Fini e Berlusconi nei titoli è tutta un fiorire di «guerra aperta», «strappo» e «frattura». L’articolo comincia con un «Incontrarsi col rischio di dirsi addio» e parla di un Fini che «tira fuori a muso duro il suo cahier de doléances», con un «ex leader di An che minacciava di ridiventare tale». Di spalla largo spazio a Schifani che «agita il fantasma delle elezioni anticipate» e Berlusconi che ripete «le scelte di Fini sono incomprensibili». Ipotesi, quella ventilata da Schifani, che uno dei quattro editoriali della seconda pagina, a firma di Sergio Soave, definisce come «un ammonimento fin troppo realistico potrebbe diventare il copione di una imprevista crisi politica dagli effetti dirompenti». 

“Lo strappo di Fini: Pronto a fare gruppi autonomi” titola in prima pagina LA STAMPA. Da pagina 2 a pagina 5 racconta la travagliata giornata di ieri, riporta i commenti dell’opposizione e un’intervista con Fabio Granata, deputato vicino a Fini. LA STAMPA parte dall’ipotesi lanciata da Fini di creare gruppi autonomi in Parlamento se si arriverà alla rottura con Berlusconi e chiede a Granata un’indicazione su quanti di An potrebbero farne parte: «Se si arriverà a questo punto si parte da 40-45 deputati e 15-18 senatori» risponde il deputato finiano. Sulla possibile espulsione dal Pdl risponde che «l’idea di espellere qualcuno implica una sorta di suggestione psicologica, An annessa nel Pdl da Forza Italia, che hanno alcuni ex colonnelli di An. Ma ho l’impressione che per loro fosse così prima ancora che si sciogliesse An». LA STAMPA sintetizza così la posizione di Fini: «Il presidente della Camera chiede uno stop alla Lega, una bella regolata a Tremonti, una svolta sulla bioetica, un ruolo-chiave sulle riforme. In più (ecco lo scoglio più duro) un azzeramento delle cariche di partito, per momento quelle di An. Fuori La Russa, a casa Gasparri, licenziati Matteoli e lo stesso Alemanno: a rappresentare Fini nel vertice Pdl d’ora in avanti solo gente da lui indicata, cominciando dal vicecapogruppo alla Camera Bocchino».

E inoltre sui giornali di oggi: 

EMERGENCY
CORRIERE DELLA SERA – “Barelle vuote e feriti evacuati. Chiude l’ospedale di Emergency”: da Lashkar Gah il reportage di Lorenzo Cremonesi. ««Stranamente» sabato a mezzogiorno della settimana scorsa gli italiani non avevano pranzato nell’ospedale. Quando gli agenti hanno fatto irruzione non li hanno trovati. Ma sembra che neppure li cercassero davvero. Il loro primo obbiettivo erano le armi e l’esplosivo che «sicuramente» sapevano essere nascosti tra gli scatoloni delle riserve di cibo nel deposito vicino alle cucine. E infatti in «neppure cinque minuti hanno trovato tutto ciò che volevano», raccontavano ieri mattina la decina tra medici e infermieri afghani ancora raccolti nel giardino dell’ospedale di Emergency. Appena sparsa la voce che era arrivato un giornalista italiano sono venuti di loro spontanea volontà a raccontare. Eppure stanno proprio in quegli «stranamente» e «sicuramente» che si condensano le mille ambiguità, paure, reticenze, incomprensioni, insomma il retaggio di un Paese in guerra da quarant’anni». 

IL SOLE 24 ORE – Carlo Marroni a pagina 15 fa il punto della situazione: operatori arrestati, ambasciatore in arrivo, silenzio di Karzai (che ha però ricevuto la lettera di Berlusconi). In questo contesto è lo stesso Gino Strada, numero uno della organizzazione umanitaria, ad alzare la voce: «Basterebbe poco per tirare fuori i nostri, basterebbe che qualche esponente del governo Berlusconi ricordasse a Karzai che l’Italia spende un miliardo di euro all’anno per tenere in piedi il governo afghano. La verità – ha ribadito Strada – è che in Afghanistan non si vogliono più testimoni. L’attacco nei nostri confronti arriva adesso perché è stato deciso che nei prossimi mesi ci sarà un’ulteriore campagna militare in quella zona».

ADRO
LA STAMPA – “Un asilo, due verità sui bimbi senza mensa”. LA STAMPA fa un vero servizio giornalistico sul caso della mensa di Adro, andando nel comune in provincia di Brescia a raccogliere dati e informazioni direttamente sul campo, scoprendo così che la notizia riportata da alcuni giornali secondo cui alcuni bambini sarebbero stati messi a pane e acqua è una bufala. Diciannove famiglie non pagavano da alcuni anni, ricostruisce l’inviato, gli altri genitori hanno protestato rifiutandosi di pagare, così le famiglie morose sono diventate 115. Il sindaco ha dato una lettera da consegnare ai genitori: se non pagate più dopo Pasqua basta mensa. Alcuni hanno ripreso a pagare, venti famiglie no. Ma il pasto, dice il sindaco, non è stato tolto a nessuno. Al di là delle bufale «resta una domanda sulle modalità di intervento» scrive LA STAMPA: «se ci sono genitori che fanno i furbi, perché farla pagare ai bambini». Un imprenditore privato, Silvano Lancini, con una donazione ha appianato il debito, «ma per l’amministrazione pubblica è una sconfitta.

ENTI INUTILI
LA REPUBBLICA – L’inchiesta del quotidiano è dedicata agli enti inutili. “Comitati, agenzie, istituti. Ci costa un miliardo il Paese che vive a gettone”: «C’è l’Istituto agronomico per l’oltremare col suo direttore generale, il managing director e uno staff di 47 persone. E il consiglio direttivo dell’immortale “Istituto opere laiche palatine”, fondato con regio decreto del 1936 con sede a Bari, inattaccabile a dispetto dei disegni di legge di soppressione che incalzano da quattordici anni. C’è il consiglio di amministrazione con 12 componenti del “Banco nazionale prova armi da fuoco” – sorta di ente anagrafe delle armi prodotte in Italia – tutti nominati dal ministero dello Sviluppo. E il cda (tutto composto da ufficiali indicati dalla Difesa) dell'”Istituto di beneficenza Vittorio Emanuele III”, fondato nel 1907 allo scopo di “esercitare funzione di assistenza a favore degli ufficiali pensionati delle Forze armate e della Guardia di Finanzia o dei loro familiari”. Proprio così, beneficenza per ex ufficiali e familiari. Al suo attivo, Villa Lieta a Sanremo, complesso monumentale liberty. Otto invece i componenti cda (tutti di nomina ministeriale) che guidano la Scuola archeologica italiana di Atene, supportata da consiglio scientifico e revisori dei conti. (…) La “black list” è venuta fuori negli ultimi mesi al ministero che si è inventato Roberto Calderoli, quel dicastero alla Semplificazione che finora di poltrone “inutili” ne ha cancellate 480. Peccato che, spiegano dagli uffici, ne restino ancora circa 1.020. Salvate, sostenute, foraggiate, mantenute. (…) Il fatto è che, una stima approssimativa, vuole che ancora un miliardo di euro l’anno venga impegnato per il mantenimento di strutture pletoriche, comunque collegiali, destinati alla gestione di enti e istituti che in molti casi potrebbero essere cancellati o ridotti al minimo degli organici». 

DISOCCUPAZIONE
IL MANIFESTO – Grande spazio alle pagine 2 e 3 al congresso della Fiom con a corredo una serie di articoli sulle varie categorie e le aziende in crisi, oltre che sull’articolo 18. Si torna a parlare di lavoro poi alla pagina 9 dove in evidenza i dati di Istat e Bankitalia: «Per l’Istat sono quasi 3 milioni i lavoratori irregolari» riassume nell’occhiello l’articolo intitolato «Il nero è sempre di moda Bankitalia: in 12mesi distrutti 700mila posti e scendono i consumi». L’articolo firmato da Galapagos è ricco di cifre, statistiche e dati.

FARMACI CONTRAFFATTI
AVVENIRE – Il Consiglio d’Europa ha predisposto la Convenzione contro la contraffazione dei medicinali (Medicrime), che dovrebbe essere approvata dal Consiglio dei ministri del Consiglio d’Europa il mese prossimo ed essere aperta alla firma a novembre. Lo ha fatto spinto da un allarme di sanità pubblica, se persino in Paesi dove la filiera è supercontrollata, come Italia e Francia, si stimano prodotti farmaceutici contraffatti per un 1% della quota di mercato, cifra che sale fino al 10 e addirittura 30% in altri paesi e al 50% in internet. La ragione? L’ha spiegata Carlo Van Heuckelom, capo unità crimini finanziari dell’Europol: se per ogni euro investito in cocaina, i trafficanti ne guadagnano 16, sui medicinali la resa è di 150mila euro per ogni 60 euro investiti.


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