Welfare

Benvenuti a Sulmona, la Casa di lavoro dove il lavoro non c’è

La prigione dei suicidi continua a fare vittime

di Redazione

Lo spettro dei suicidi è riapparso all’imbrunire. Come da copione. Era già sera quando gli agenti di custodia hanno scoperto il corpo in fin di vita di Antonio Tamarro, 28 anni, di Villa Literno nel Casertano. Si è impiccato con i lacci delle scarpe. Il giorno prima, il 6 gennaio scorso, era rientrato da un permesso premio. Stessa fine di Francesco Vedruccio, 37enne di Squinzano nel Salento. Si tolse la vita con il cordone della tuta il 28 aprile del 2005. Cinque anni. Tanto è durata la tregua nelle celle di Sulmona, il supercarcere conosciuto come la “prigione dei suicidi”. Lo scorso 3 aprile, tre mesi dopo Tamarro, un’altra morte. Romano Iaria, 54enne romano, si è ammazzato con un lenzuolo legato alla grata della cella.

Ergastolo bianco
Cinque anni in cui, nonostante i tentativi per migliorare la vita dietro le sbarre, poco o nulla è cambiato. Per la semplice ragione che poco poteva cambiare. Il carcere abruzzese sconta infatti, accanto alle tare di buona parte delle galere italiane, e cioè sovraffollamento, carenza di personale e di risorse per la rieducazione, i limiti di una struttura che, proprio per le caratteristiche dei suoi detenuti, richiederebbe semmai investimenti straordinari. Alle carenze dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto centrale, si somma poi la fragilità di un territorio che fatica a dialogare con il carcere di via Lamaccio.
Sulmona, facciamo un passo indietro, è sia Casa di reclusione (dunque per detenuti definitivi) sia, soprattutto, Casa di lavoro (in Italia sono solo quattro e quella abruzzese è la più grande). Si tratta di un tipo di istituto sorto in epoca fascista e riservato ai cosiddetti “internati”. Soggetti, cioè, dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza che hanno già scontato una pena (sono formalmente liberi) che la magistratura però ritiene possano tornare a commettere reati. Di fatto, questa che è una misura di sicurezza detentiva, può essere più pesante di una vera pena restrittiva. L’internamento in Casa di lavoro, infatti, in assenza di possibilità concrete di reinserimento, viene reiterato diventando una sorta di ergastolo bianco.
Sulmona, secondo dati aggiornati a maggio, ospita 431 detenuti su una capienza regolamentare di 301 e tollerabile di 520. Buona parte dei reclusi, ma il dato cambia a seconda dei periodi, sono internati. Questi ultimi sono in maggioranza soggetti tossicodipendenti o con disturbi psichici. Persone, dunque, da curare più che tenere dietro le sbarre. Soggetti, soprattutto, che dovrebbero lavorare. Non a caso sono assegnati a una Casa di Lavoro. Il paradosso è che a Sulmona c’è poco lavoro. Scarseggia quello ordinario interno (gli scopini), quello realizzato fra le mura del carcere con fondi dell’amministrazione penitenziaria o su commessa esterna e quello all’esterno per gli internati che accedono alle misure alternative.

Zero opportunità
«Investire in questo ambito non significa sperperare danaro pubblico ma restituire alla società persone sane e non delinquenti più incalliti di prima», commenta Gino Ciampa, delegato sindacale della Cgil Fp dell’Aquila. Pesa la mancanza di interventi radicali ma anche il pregiudizio. «Gli internati provengono tutti da fuori regione. Difficile che un imprenditore assuma chi ha un lungo curriculum criminale e che prima o poi tornerà nella terra d’origine», spiega Luisa Cappa, direttrice dell’Ufficio di esecuzione penale esterna dell’Aquila. Il tessuto imprenditoriale della Valle Peligna del resto è povero. «Non c’è lavoro per i residenti, figuriamoci per i detenuti», fa eco il cappellano padre Franco Messori. Spesso, poi, si tratta di persone che non hanno mai lavorato (se non per la malavita) o non hanno professionalità spendibili sul mercato. Dovrebbero prima imparare un mestiere. La durata limitata dell’internamento finisce però col castrare la continuità fra formazione professionale e ricerca di un impiego.
I reclusi nella Casa di lavoro, altro punto debole, in molti casi non hanno più né casa, né parenti. Il punto è che senza lavoro, un familiare o una comunità disposti a scommettere sul recupero diventa un’impresa accedere alle misure alternative o ai sei mesi di “esperimento” finale concessi agli internati e provare così a interrompere la spirale delle recidive e dei rinnovi a catena. «Non si sentono accettati dalle famiglie: per questo la fanno finita», aggiunge suor Benigna Raiola, volontaria del supercarcere. Stessa musica per il recupero dei tossicodipendenti. «Se l’internamento è di breve durata non c’è tempo neanche per inquadrare il caso. Se è di un anno consente al massimo il programma col Sert ma non l’invio in comunità», osserva Elia Dora di Ciano, responsabile del Sert del carcere di Sulmona. Inutile parlare dei detenuti con problemi psichiatrici: non si sa dove mandarli. Qualsiasi strada, insomma, si imbocchi per uscire dal labirinto di Sulmona si finisce in un vicolo cieco. C’è qualcuno che pensa ancora, posto che questi istituti servano davvero a qualcosa, che sia il luogo ideale per una Casa di lavoro?

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