Ne parlano tutti ma è difficile imbrigliarlo in categorie preconfezionate. Il south working significa sicuramente tante cose: benessere dei lavoratori, quote di “reddito” che vengono spostate verso aree più fragili e marginali e ripopolamento.
Quest’ultimo viene spesso definito in modo maldestro, con il fatto di far “restare” i giovani al Sud e credo che sia il tema principale da affrontare.
Potremmo dire che il dato è tratto o quanto meno dovremmo essere consapevoli che siamo stati catapultati nel XXI secolo solo negli ultimi mesi del 2020 e le grandi trasformazioni che stiamo vivendo: demografia, ambiente e digitali sono punti di non ritorno che vengono negati solo dai nostalgici dell’analogico.
Anche sul south working ci troviamo difronte ad una realtà e non più ad una idea. Come ci ricorda l’analisi dello Svimez che conta circa 100 mila south workers coinvolti in questi mesi in diversi territori. L'indagine è stata condotta da Datamining per conto della Svimez su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti, che operano nel Centro Nord ed in particolare, nei settori manifatturiero e dei servizi. Sono 45 mila la stima dei lavoratori che si sono spostati in questi mesi nel Mezzogiorno fino ad arrivare a 100 mila contando anche piccole e medie aziende.
Sembrano esserci solo vantaggi, e in effetti ce ne sono molti, ma se vogliamo partire da una delle sfide ancora non risolte, potremmo concentrarci su quella dialettica che ha con il termine “RESTARE” il massimo della sua contraddizione. La questione non è tanto quella di costringere qualcuno a restare, costruendo gabbie d'orate che poi verranno smantellate dopo la pandemia che stiamo vivendo e che sono utili solo ad un rapporto individuale (momentaneo) tra impresa e lavoratore che rientra o resta nel suo paese.
La sfida è ben più ampia di questo, perché abbiamo la grande occasione di ripensare al modo in cui vengono concepite le infrastrutture sociali delle piccole comunità e ai processi con i quali si costruisce e si investe nel capitale sociale messo a disposizione dai giovani (i primi soggetti con cui parlare).
Guarda questi dell’associazione "South Working – Lavorare dal Sud", che hanno saputo prima e meglio di altri capire l'importanza del tema del lavoro in remoto e che hanno evidenziato come circa l'80% degli intervistati dall’associazione, su un campione di più di 7.000 utenti, andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto.
Da questa ricerca, attraverso un campione più ristretto di 2 mila lavoratori, emerge anche che circa l’80% ha tra i 25 e i 40 anni, con titoli di studio, principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza e, nel 63% dei casi, e un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Ci sono anche dei difetti di organizzazione e gestione delle modalità messe in campo per gestire il south working ma non possono (e non devono) essere un limite allo sviluppo. Non sono quindi d’accordo con chi, come la Prof. Rossella Cappetta, evidenzia solo i limiti e il fatto che possa determinare l’isolamento sociale e maggiori costi di organizzazione e minor produttività.
Questa effetto degenerato può avvenire, certo, ma solo se le imprese penseranno di fare tele lavoro e non smart working. Solo se non ci sarà una formazione adeguata sia ai dipendenti che investiranno nel Sud che ai datori di lavoro che dovranno capire come gestire un lavoro per obiettivi.
Altro che isolamento e disaffezione.
E’ più isolato un lavoratore dentro un edificio per 8 ore al giorno tutti i giorni oppure un lavoratore che ripensa il proprio lavoro sulla base della propria vita e di scadenze che diventano più gestibili, perché non più sottoforma di urgenze, bensì di co-programmazione.
La disaffezione non esiste se calcoliamo l’investimento sulle persone e sul proprio benessere, che si lega poi ad un risparmio di costi oggettivo degli spostamenti e degli alloggi che sono la voce di spesa più impattante in uno stipendio. Per non parlare anche all’abbassamento delle barriere di ingresso per le donne e per le persone con disabilità.
Altro tema, invece, è lo smart working per chi abita nello stesso territorio in cui è presente l’impresa. In questo caso si può pensare ad un equilibrio in cui ci sono 3 giorni di smart working e 2 in presenza ma non si applica al south working che ripensa il modello di lavoro in remoto secondo uno schema di investimento e creazione di capitale sociale da realizzare nel medio lungo termine all'interno di una comunità locale.
Guarda questi del Comune di Castelbuono in Sicilia che ha avviato un percorso collaborativo tra istituzioni e tessuto imprenditoriale locale, concedendo spazi pubblici per sviluppare attività di coworking. Fondamentale, ovviamente, è stata anche la presenza di un avanzato sistema di WiFi e il ruolo dei musei locali dove sono stati creati dei coworking impregnati di arte e cultura (ne abbiamo tanto bisogno in questi giorni…).
O se usciamo fuori dai confini nazionali, pensiamo alla rinascita che ha avuto Lisbona con l’intervento di giovani che hanno deciso di aprire una loro attività imprenditoriale, creare un ecosistema di innovazione diffusa tra giovani che si uniscono e si connettono con idee e competenze diverse.
La logica deve essere win win e non di mera incentivazione. Perderemo in partenza. Sicuramente dobbiamo darci delle regole comuni per un agire comunitario che superi la il rapporto individuale tra datore di lavoro e dipendente.
Metto di seguito alcuni dei punti che reputo più strategici per l'evoluzione del south working che affronterò nel dettaglio in un altro articolo.
- Estendere il rapporto di lavoro, dall’impresa alla comunità intera. Abbiamo bisogno di alleanze che connettano i territori del Sud, perché se un piccolo paese si ripopola ma rimane isolato, allora andremo in contro a quell'effetto perverso di isolamento, non più della persona ma dei territori! Sarebbe bello che ci fosse anche un raccordo costante tra il territorio e la comunità dove è prese l'impresa, mettiamo caso sia al Nord, con quello del Sud in cui andrà a lavorare il giovane;
- Investire nelle infrastrutture, fisiche e digitali. Gli amministratori hanno una grande occasione ma devono investire nella fibra e in luoghi di lavoro condivisi che possono evitare il “limite” delle singole abitazioni. HUB diffusi per gli smart worker che, secondo una logica circolare, possono essere recuperati e rigenerati per questo utilizzo collettivo;
- Dedicare una parte del proprio tempo per progetti di sviluppo comunitario per investire in un territorio che accoglie e che può diventare un moltiplicatore del capitale sociale. La creatività e l'open innovation che può scaturire da menti giovani che non solo pensano a come restituire il valore condiviso che hanno acquisito ma pensano e agiscono insieme con e per gli altri abitanti;
- Quando saremo pronti, in una fase 2, costruire un piano di sviluppo locale sostenibile per gestire l’aumento della domanda di consumo e dei servizi che non può essere improvvista. I programmi politici possono essere ripensati secondo indicatori di sviluppo sociale e ambientale.
Insomma, l’unico passo indietro che possiamo fare oggi è quello che ci serve per prendere la rincorsa e accelerare il passo. Facciamolo! Bussiamo alle porte dei nostri uffici e facciamo scomodare i nostri sindaci ma agiamo ora perché non so quante seconde occasioni avremo.
In teoria, non c'è nessuna differenza tra teoria e pratica. Ma, in pratica, c'è
Yogi Berra
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