Cultura

Ben tornato Dos Passos. Bello come un film

Recensione del libro "Manhattan Transfer" di John Dos Passos.

di Domenico Stolfi

Per anni ci si è lamentati degli eccessi dello sperimentalismo letterario. Una serqua di nipotini di Joyce o di Beckett ci hanno ammorbato con innumerevoli compitini d?avanguardia. Cerebrali e illeggibili. Poi l?industria culturale ha deciso che andava invertita la rotta, buttando però con l?acqua sporca anche il bambino. Oggi, infatti, con la scusa che la mitica gente vuol leggere roba commestibile, una fastidiosa prosa standard caratterizza la maggior parte della narrativa. E non solo italiana: la globalizzazione infatti colpisce, e affonda, anche la letteratura. Cancellando d?un colpo tutta la grande lezione del Novecento, dai nipotini di Joyce, siamo passati a quelli di Balzac in salsa fast food. Fa piacere perciò leggere la riproposta di un classico della narrativa americana del Novecento come Manhattan Transfer di John Dos Passos (Baldini&Castoldi, 17,6 euro). Lo stile di Dos Passos è ricco e rutilante, fondato su una tecnica narrativa filmica che monta, con l?intelligenza espressiva di un Orson Welles della scrittura, scene di forte suggestione visiva, sprazzi di monologhi, dialoghi serrati e squarci lirici. Bastano poche righe per sentirsi calamitati in un mondo dove lo stile sembra capace di offrirci una ?seconda vista?: davanti a noi si dispiega la sontuosa e sordida superficie delle cose, ma dietro di essa riconosciamo, nitido, un gioco convulso di correnti sottomarine, quelle che danno a ogni attimo il suo pathos e il suo timbro.


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