Lavoro sociale

Bellezza e poesia del lavoro in una comunità per minori

Martina Paoli è un’educatrice che lavora in una comunità per bambini. Ha scritto un libro per raccontare la sua professione, le sue luci e le sue ombre, le sue screpolature e possibilità. È pieno di meraviglia, drammaticità, senso di incompletezza, struggimento e ironia. Ma anche malinconia e leggerezza e tanta dolcissima fragilità. «Dalla comunità si esce, in teoria, entro ventiquattro mesi: per una persona in crescita sono pochissimi e tantissimi. Volano. Ma possono fare la differenza. Ecco perché bisogna raccontare quello che avviene “lì dentro”, e raccontarlo bene…»

di Sabina Pignataro

“Mi fai l’addormentamento? Poetica educativa in una comunità per bambini” è un libro – tributo alla bellezza del lavoro di cura in una comunità minori, un luogo che accoglie bambini e bambine che, per i motivi più diversi, in un certo momento della loro vita, non hanno la possibilità di vivere con i propri genitori.

Lo ha scritto Martina Paoli che, fuor di metafora, lo abita giorno e notte. E anche nei suoi giorni feriali e festivi, nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle cadute e nelle rinascite, piccole o grandi che siano. Nelle sue screpolature, rigidità e possibilità.

«Le comunità minori sono un luogo ancora troppo poco conosciuto, poco raccontato». Lei ha scelto di mettere a fuoco il momento dell’addormentamento che, come scrive nella prefazione, Andrea Prandin (consulente pedagogico, formatore e supervisore nei contesti per la tutela di bambine, bambini e delle famiglie “multispettinate”) «è un luogo e un’esperienza che chiede prima di tutto di sapere partecipare a un movimento d’insieme dai confini labili e mobili, che intercetta continuamente innumerevoli grammatiche e infinite code di cometa che ogni ospite porta con sé e propone, mostra e nasconde. Accarezza, agita e morde».

In ogni storia narrata convergono drammi incalcolabili, conti che non tornano, decreti del tribunale, storie di schiaffi e incurie ricevute da chi, invece, dovrebbe accarezzare e curare; contiene sviste, disperazioni e riscatti, migrazioni e destinazioni, paura, desincronizzazioni, psicodiagnosi e valutazioni, indagini e carabinieri. Ma anche rabbia, reti tra servizi, avvocati, lacrime e ricordi.
Eppure è un libro pieno di  meraviglia, drammaticità, senso di incompletezza, struggimento e ironia. Ma anche malinconia e leggerezza e tanta dolcissima fragilità.

Edizioni Anima Mundi

Paoli, lei in comunità lavora  come educatrice professionale. Come si fa a celebrare l’infanzia di bambini che vivono questa esperienza, nata da un dolore, da una separazione forzata?

Credo che sia importante far vivere loro l’infanzia nella maniera più semplice possibile, anche se in questo momento della loro vita stanno abitando un luogo complesso e diverso da “casa”. Per semplice intendo: partecipare alle feste di compleanno dei loro compagni di classe, fare attività sportiva, andare al mare, in montagna, al parco. Festeggiare il compleanno, magari con una bella festa e con una grande torta. Insegnare loro ad andare in bicicletta, sui pattini, a nuotare. Purtroppo il dolore della separazione non passa. Farli sentire però dei bambini, ogni giorno, aiuta molto.

Ci può raccontare il momento dell'”addormentamento”, quel frangente tra il tramonto della giornata e l’abbandono al buio, quando incubi e sogni rincorrono i bambini?

Il momento dell'”addormentamento” è sempre stato molto particolare. I bimbi lo hanno chiamato così sin da quando ho memoria del mio inizio in comunità. Quello che sicuramente colpisce è come, ognuno di loro, scelga ogni giorno quale educatore vuole per andare a nanna. Spesso iniziano a chiederlo sin dal mattino, come se volessero “prenotare” chi li accompagnerà ad addormentarsi. Il dettaglio che ognuno di noi deve tenere a mente è il desiderio che ha ognuno di loro per addormentarsi: chi vuole una storia, chi una canzone (sempre la stessa tutte le sere), chi il silenzio, chi un bacio, chi nulla. Ho ricordo di molte lacrime: tanti bimbi piangono prima di dormire. La mancanza di casa si fa più forte. La separazione di cui parlavamo prima diventa palpabile. Nonostante questo, mi ha sempre stupito come molti di loro, se non tutti, non abbiano mai avuto grosse difficoltà a dormire durante la notte. Nonostante la fatica ad addormentarsi, raramente sono stata svegliata.

 La comunità è un luogo nato per essere “temporaneo”: Un momento che può essere talvolta breve e talvolta molto lungo. Un momento che difficilmente verrà dimenticato…

Dalla comunità si esce, a volte dopo pochi mesi, al più tardi dovrebbero essere ventiquattro. Ventiquattro mesi nella vita di una persona in crescita sono pochissimi e tantissimi. Volano. Ma possono fare la differenza. Ecco perché bisogna raccontare quello che avviene “lì dentro”, e raccontarlo bene…
La comunità è sicuramente un luogo di passaggio, ma che, nel momento in cui viene vissuta con passione, affetto, professionalità e cura, lascia qualcosa che indubbiamente l’educatore che l’ha abitata si porterà dentro per sempre. Raccontare cosa avviene “lì dentro” è complesso. Spesso è difficile riuscire a spiegare cosa fa l’educatore. Ancor di più cosa fa l’educatore di comunità. 
In comunità si passa dal jeans al pigiama in poche ore. Dalle scarpe alle ciabatte. Dall’essere seduti a tavola all’essere sdraiati sul divano. Dal lavarsi i denti tutti insieme, anche più volte, per poterli lavare con tutti i bimbi, al prendere lo sciroppo per la tosse (sempre per lo stesso motivo). Credo sia bellissimo oltre che un privilegio poter raccontare la quotidianità che si vive in una “casa” tanto particolare. 

Il quotidiano non è solo prosa, è anche poesia. Lei come allena i suoi occhi al bello, alla poesia, in un lavoro che a tratti è tanto duro?

Semplicemente non li alleno. Alcune giornate non passano mai. Altre vorresti finissero ancor prima che inizino. Credo sia stato naturale osservare quello che di bello rimane quando ti sdrai nel letto affianco a 10 bimbi e pensi: chi arriverà correndo domani mattina per fare colazione?

 Il lavoro di cura è anche fatica. È un lavoro che non si esaurisce nell’erogazione di un servizio, di una prestazione. La cura è innanzitutto relazione, è capacità di ascolto dell’altro, è empatia. Come si impara a stare in questa relazione?

Nel momento in cui riesci a stare in relazione con te stesso, allora puoi anche stare in relazione con l’altro. Rapportarsi con bambini e bambine, ragazzi e ragazze allontanate dalla famiglia talvolta è straziante. Ho imparato, lavorando, che riconoscere i propri limiti è fondamentale per riuscire a stare con l’altro in maniera autentica e non superficiale. Ritengo quindi fondamentale ascoltare l’altro, ma prima di tutto se stessi.

Ci racconta una difficoltà?

Per esempio, il lavoro educativo e relazionale di un educatore che lavora in una comunità residenziale non si esaurisce a fine turno. Questo non significa non avere una propria vita privata o giorni di riposo. Pensare però, mentre sei fuori turno, che quel pigiama appeso nel negozio potrebbe servire a quel bambino in comunità, così come quel paio di scarpe, quel costume per il corso di nuoto, quel pacco di merendine o quell’astuccio per la scuola, fa in modo che si vada oltre la prestazione e si arrivi alla cura. Io l’ho vissuta così. E non mi è mai pesato. Ha solo aggiunto. 

Oggi gli educatori sono parecchio richiesti. Ma non se ne trovano molti. Forse la motivazione a lavorare a fianco di chi è ai margini della società oggi si è indebolita, a fronte di una fatica (il lavoro su turni, festività comprese) non sufficientemente gratificata da adeguati livelli retributivi. Cosa ne pensa?

La situazione è parecchio complessa. Credo influiscano diversi fattori rispetto all’indebolimento della figura educativa oggi. Da un lato, sicuramente a livello retributivo non siamo per nulla riconosciuti. Spesso obbligati a lavorare su più servizi, in diverse posizioni educative, correndo da una parte all’altra della città. 
Dall’altro non tutti sono disponibili a “sacrificare” il week end, le notti, il Natale, il capodanno e l’estate per lavorare. A me per molti anni è andata bene così, anzi, con i colleghi era bello lavorare il giorno di Natale per esempio, festività che ho scelto di fare in turno per diversi anni. Oggi vedo meno l’inclinazione al sacrificio. Sembra quasi che l’educatore sia arrivato al punto di voler timbrare il cartellino di ingresso e di uscita. Purtroppo in comunità questo non è assolutamente praticabile. 

Immagina delle possibili soluzioni?

La prima strategia interessante sarebbe davvero quella di riconoscere di più questo lavoro da un punto di vista economico. Credo aiuterebbe a tollerare molto meglio alcune richieste lavorative. Non si può pretendere di lavorare fino alle 23 e oltre, ricevendo poi una paga che a malapena ti permette di pagare il mutuo. 
Oltre a questo, credo da sempre che non tutti gli educatori possano essere educatori di comunità. Forse bisognerebbe fare i conti con le proprie capacità e limiti, essendo anche in grado di fare un passo indietro laddove necessario. Questo complica ancor di più le cose, ma permette un lavoro migliore e di livello, pensato e curato. 

Per la cover del libro si ringrazia l’ufficio stampa di AnimaMundi
Foto in apertura di Annie Spratt su Unsplash

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